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Ospedale S. Luca

Da tutte le parti come una litania,
senti dire che la sanità è da gettar via.
Noi di Trecenta diciamo: buttarla via, ma non proprio tutta, 
noi siamo stati fortunati, abbiamo l’Ospedale dedicato a S. Luca.
Cercando il pelo nell’uovo neanche qua tutto è perfetto,
e si può trovare più di qualche difetto.
Per esempio non hanno badato a spese,
lo hanno dotato di ben tre chiese.
San Luca non me ne volere, deve ci sei Tu e Nostro Signore,
qualsiasi edificio ha un grande valore.
Però l’ultima che ti hanno dedicato guardandola mi confonde,
sembra di essere tornati ai tempi bui delle Catacombe.
San Luca mi risponde: “Hai ragione un bilancio più oculato,
sarebbe di grande vantaggio anche per il malato”.
Altro difetto, quando aspettando il tuo turno seduto in “scarana”,
il tuo occhio attento vede una cosa strana.
Vedi tante impiegate per i corridoi a gironzolare,
danno l’impressione che abbiano poco da fare.
Con le loro mini sottane all’ultima moda, 
 ti vien da dire: “Perbacco, guarda che roba”.
Accontentano l’occhio del paziente che è un piacere,
ma pensi: non ne potrebbero bastare di meno e aumentare le infermiere!
Si, dico questo, perché negli ambulatori di riabilitazione, 
poche infermiere trafelate tengono a bada la situazione.
Una lancia va spezzata a loro favore, 
e penso che un complimento non potrà che farle onore.
Le note positive, a meno che uno non sia un incontentabile,
le troviamo nel lavoro dei Medici che è encomiabile.  
Tutti i reparti e i laboratori, 
lavorano egregiamente in barba ai detrattori.
Il fiore all’occhiello è il centro trasfusione,
Dottori, infermieri e donatori che siano i migliori è fuori discussione.
Con orgoglio lo dico da donatore,
la cosa a noi tutti non può che fare onore.
Se gli altri non sono d’accordo del giudizio qui dato,
pazienza, è il giudizio di un avvisino sfegatato.
Scherzi a parte diamoci tutti da fare in modo leale,
perché il nostro diventi il migliore Ospedale.
E perché il nostro sforzo non fallisca,
preghiamo il nostro protettore S. Luca  Evangelista.

Il Fiume Tartaro

Amico fiume della mia gioventù

Bello quando mi specchiavo nelle tue acque limpide.

Caro al mio cuore di bambino.

Davi alimento a pesci, sfamavi branchi di oche e anatre e le mucche si abbeveravano.

Era uno spettacolo, oggi morirebbero avvelenate.

Fratello fiume come ti hanno ridotto, e pensare che un tempo le tue acque erano così limpide che si  potevano vedere i pesci nuotare sul fondo .

Guardare i pescatori con le loro barche era uno spettacolo, le loro movenze erano così leggere, ma la durezza la si leggeva nei loro volti e spesso il bottino era scarso.                                         

Humus fertile diventavano le tue alghe tagliate dalle draghe, quando erano in vita sembravano verdi stelle filanti accarezzate dalle onde.

Incontaminate erano le tue acque tanto che l’uomo poteva dissetarsi

Le lavandaie sciacquavano i panni senza inquinarti.

Maestoso eri in primavera e in autunno quando le piogge ti alimentavano.

Nel periodo estivo diventavi il nostro mare la nostra spiaggia.

Ora l’uomo in nome del progresso ti ha trasformato in una fogna, una cloaca.

Però io con la fantasia m’illudo e ti vedo come il caro amico di un tempo.

Quante ore ho sguazzato nelle tue acque, sbirciando lussuriosamente il costume adamitico delle mie coetanee.

Rincorrersi e giocare presso le tue rive era il mio passatempo preferito.

Spesso coppiette imberbi si nascondevano, disertando le attività collettive e riapparivano a noi a giochi fatti.

Tartaro, transitare lungo i sentieri erbosi e alberati delle tue rive, ci permetteva di tornare a casa da scuola scalzi e al riparo della calura estiva.

Ucciso dall’incuria dell’uomo scorri verso il mare a testa bassa.

Vederti ora: torbido, limaccioso, puzzolente. Mi chiedo se il futuro ci riserva progresso o morte.

Zero è il voto che meritiamo, che merito per avere permesso pur amandoti la tua agonia.

La chiesetta scomparsa

Se ha scomparire è una cosa brutta o di poca importanza il guaio è leggero,  anche se sempre guaio rimane. Ma se a scomparire è un gioiello, lascia l’amaro in bocca per non dire sconcerto.

Con la scusa di dare un aspetto più moderno e funzionale all’insieme dei fabbricati che costituivano l’opera “Casa S. Antonio”alcuni sventurati pensarono bene di demolire la Chiesetta dedicata alla Beata Vergine di Lourdes e la vicina casa canonica, nella massima indifferenza da parte dei cittadini di Trecenta. Solo con il passare del tempo si è capito di quale gioiello la comunità è stata privata.

Nel 1908 fece visita a Trecenta un sacerdote conoscitore dei problemi che colpivano i più poveri, gli orfani e i vecchi. Si chiamava Don Luigi Guanella. In quel periodo (1902-1913) era Arciprete di Trecenta Mons. Ugo Cappello, suo amico e collaboratore. Gia nel 1899 il Monsignore aiutò Don Luigi a far nascere a Fratta Polesine una casa della sua opera. Il Beato si era reso conto che anche a Trecenta le condizioni di vita erano precarie e, con l’aiuto dall’Arciprete e dal lascito fatto con testamento dalla Signora Colognesi Amalia in Maggioni del Palazzo Cremonesi (ora abitazione dei signori Maghini e Bianchini), diede inizio alla sua opera.

L’Opera era sorta come asilo infantile e oratorio festivo ed ha trovato come prima sede appunto l’edificio donato dalla Signora Cologhesi. “Solo in un secondo momento, con l’aiuto del Signore che non l’aveva mai abbandonato, la provvidenza gli fece incontrare il signor Tullio Bellini, il quale lo aiutò a realizzare il sogno che da tempo accarezzava, quello di realizzare un’opera grandiosa per quei tempi, il Bellini le fece dono di una vasta area nei pressi della sua prima casa, su cui furono costruiti i locali della casa di ricovero e quelli per alloggiare le orfanelle” (dalla biografia su  Don Guanella di Vasco Lucarelli).

Come sappiamo l’opera fu chiamata Casa S. Antonio e fu affidata alle Figlie di Santa Maria della Provvidenza, ordine fondato dal Beato Luigi Guanella. L’inaugurazione dell’opera intera avvenne poi l’11 febbraio 1912.

Il complesso era costituito da un edificio a due piani, tuttora esistente anche se ristrutturato, che ospitava le aule e le camerate per i vecchi e le orfanelle e i servizi, un secondo edificio più piccolo, addebito ad asilo, la casa del benefattore che serviva anche da canonica e da una bellissima chiesetta. L’edificio sacro era dedicato alla Beata Vergine di Lourdes, che si festeggia l’11 febbraio  (per i Trecentani la “Madonna del sior Tullio”). Nella sua semplicità la chiesetta era unica, composta da una sola navata. Già come si entrava si era colti da una sensazione di pace e di  letizia, sullo sfondo dopo il presbiterio e l’altare, trovava posto una bella grotta, copia di quella di Lourdes.

Non potrò mai dimenticare la prima volta che, accompagnato da mia mamma, la visitai. Eravamo pochi giorni prima dalla Festa dedica alla Madonna, alle sue pareti erano appesi stendardi e bandiere tutti gli altari addobbati. La grotta era illuminata da centinaia di ceri votivi e  al posto d’onore vicino all’Altare Maggiore la statua della Madonna. Un vero Paradiso, per quelli che come me, questo gioiello se lo ricordano e sapere che è stato distrutto mette malinconia. Se poi verifichiamo che è stato sostituito da un edificio tozzo e freddo, lo sconforto e il dolore cresce. Perdonami Beata Vergine se parlo così della Tua nuova casa.

Per rispetto dei donatori, per l’affetto dei devoti, per la devozione alla Madonna, questo gioiello doveva essere salvato!

Il Polesine, terra benedetta ma trascurata

Par la so forma longa e stretta la sirìa,
na strisa de tera fertile e benedia.
A destra la ga al Po a sinistra la ga l’Adese,
l’è taià in mezo dal Tartaro e po dal Canalbianco
e altri otto o diese Scoli almanco.
Al Polesine con capitale Ruigo
dal zielo le stà benedio, come ca ve digo.
Però le un pecà, cla sia stà,
par tanto tempo strapazà e mal aministrà.
L’è deventà tera de conquista,
de tute le casà allora più in vista. 
Mi a me szarvelo còsa  gheveli in tla zuca,
che par stà strisa  de tera, i Doge e i D’este i iera sempre in baruffa.
Al Polesine i venezian ca ghea i schei , i là invaso, 
de sicuro i nlà mina fato par caso.
Sia al  pesce, che al fromento ca ghiera in abbondanza,
tutti i caga in acqua i sa inpinì la panza.
Dai  Badoer, e quei dla so risma, fin Mocinigo
chi i sa fato le più bele ville, dla proincia de Ruigo.
La Badoera a Fratta, a Canda la villa Nani Mocenigo,
iè de na beleza ca ne ve digo.
Se i venezian i là sachegià dal nord,
i fraresi ia fato al resto dal sud.
Da Guarda e anche più in zo ,
ti te cati trace, longa la riva sinistra dal Po.
Da Ocbel , Stienta, Gaiba, Figarol a Massa Superior, e più in su,
i contadin i morea dala fame, e i siori i se impinea la panza sempre de più.
Al belo lè chi ne iera mina sazii da verse spartio sta terra,
ogni qualtanto i se fasea la guera.
I se dasea bote da orbi, de cle smanegà ,
ca ghe rimetea i iera sempre i pori desgrazià. 
I venezian le vile e i fraresi i castei,
se vede che i D’Este ei Pepoli i ghea più schei. 
Queli de Castelguglielmo, Castelmassa, Castelnovo, ie sparì, 
quei de Sarian e il Palazzo Pepoli de Tresenta ie ancora chì.
Prima de sti magna, magna, a ghe stà i frati,
che ancora adesso ghe di loro manufati .
A Badia la Vangadizza a Salara “La Cros”e altri conventi in quà e in là,
solo i Benedettini,con le bonifiche alla pora zente ia pensa.
I venezian co i so eredi ie sparì,
i fraresi par le so male fate ie stà maledì.
I frati dopo al concilio de Trento,
i sa ritirà tutti in convento.
I Estensi i sa anca premurà de dedicare ai Santi lori protettori,la cesa de Sarian,
a S. Maureglio, quela de Tresenta e Bergantin a S. Giorgio con la lancia in man.  
Come ricordo i sa lasà i dialeti, da contrà a paese,
a ghe chi ca parla, mantoan, e veronese,
e non solo, ma frarese e padoan,
in mezo al ruigoto e a sinistra al venezian.
Tanto, questa l’è bela da savere,
in fameia, al marì al parla un dialetto diverso dla muiere. 
Da cosi, cusi, acsi, da ramenato, soraus, architrav,
da furzina, forcheta, e piron chi le bon da capirs le brav.
Sta tera da benedia la sa trasformà,
par le disgrazie ca ghe casca’ adosso in zona depresa e malandà.
Prima la pelagra, i magnava sol polenta, la zente famà,
e po con la malaria e le zanzale al Polesne  al sa degradà. 
Sa ghe zonten i disastri dla guerra e l’otto Settembre, dopo l’armistizio
ricordare i pori partigiani trucidà, l’è un supplizio.
I martiri de Villamarzana, e de Tresenta, ie sta masacrà. 
A me domando, “Parchè solo i zoveni, e i veci i sla cava”?Ma. 
La rota dal Po del zinquantuno, che desolazion,
la so zente l’è emigrà  dimezando la so popolazion.
I siopari organizà par umentare i salari,
ia creà ancora più odio tra parun e proletari. 
Quante bastonà i sa ciapà sulla gropa,
almanco questo al fuse servio a calcosa.
Na bruta storia a go da contare,
“En fato preginiera la celere” a se sentea zigare.
Na sciopetà a sa sentu in te sto bordelo,
la pallottola là colpio al cuore il giovane Tosarello.
I disea che i scioperanti iera na manega anti clericale,
però tutto al rispeto ia riservà a Don Graziano, ciamà al so capezzale.
Na fola urlante e quasi indemonià,
al so pasaggio, un silenzio riconoscente i ga riservà.
I contadin urlando i disea “En vinto”,
ma solo chi ca ghea bonsenso al ne iera convinto.
E’ rivà al sbrancamento dle fameie, le stà un cocolon al cuore,
la soluzin a sto punto, o se parte o a se more.
Sa volen, oltre la disgrazia le sta na man de Dio,
a Turin, Milan, Ivrea ia catà da magnare e i ne torna più indrio.
Qua a se ndasea far spesa col libreto, e quando se ghea i schei se pagava,
ma la fame la restava tanta, e al botegaro con la so matita, lu sì al magnava.
I se ciapava di boni da gnente e scansafadigne, pelandrun,
sa voto chi ghese entusiasmo, lori i laorava e ca magnava iera i parun.
A ghe restà solo de cargar ste quatro belese su al camione e lori cuacià soto al tlon
i rivava famà, distruti con i ossi roti a destinazion.
Na olta rivà i pagava al camionista riconoscenti, ma co(sc)a strana,
parchè le pasà alla storia, come:”Trasportator di carne umana”. 
Un me amigo, fiolo de fameia, na olta rivà a Milan, 
in stazion al sa meso a magare a boca piena al so pan.
Un fachin cal là visto, al ga domandà:
 “Magnito sempre cusi”, “Si parchè “, “Scoltame mi le meio ca te torni a cà”.  
Noantri polesan anca in region a Venezia en  sempre contà poco,
i disea”Sa te si de Ruigo te sirè sempre un pitocco”. 
Al sud dal nord la iera la classifica corrente.
Ma nonostante tutto chì ha laorà zente ecelente.
Il Senatore Dott. Nicola Badaloni che a Tresenta anden orgogliosi,
con al so ingegno la debelà la pelagra e altri mali odiosi.
Roberto Rossi e al Prof. Martini con la so opera ia fato nasar l’ospedal,
fior all’ocel dla storia de Tresenta paese dal Polesne occidental.
Ma com sempar la zent, dai vec e manc ancor dla zoventù,
de sti brav oman i  nse ricorda più. (In dialetto frarese)
Un altro polesan da menzionare le stà Giacomo Mateotti,
e Oroboni anca lù de Frata e i carbonari patrioti.
Con la Traspolesana,  l’idrovia, Fissero, Tartaro e Canalbianco,
na bona prospettiva par l’avenire, a pare ca ghe sia.
Solo che purtroppo ultimamente,
in parlamento a ghe mandà zente ca par che ne conta gnente.
Dla storia de sto Pelesine a se ne sentù tante 
a pare che colcosa apia scritto anca al Sommo Dante:
“ Tra Adige e Po tra bisci, roschi, e rane,
giace il Polesine Infamè”.
Nò, nò,… mi a ne ghe stago.
Parchè al polesan lè un omo bravo.
Polesine, una terra ricuperata, spero, che tu sia,
perché, in tal ben e in tal mal a te si la terra mia.           

I gorghi di Trecenta

Fenomeno quasi unico che molti naturalisti ci invidiano, ma che noi non apprezziamo nel giusto modo.

Percorrendo gli antichi rami del Po si trovano zone umide dette gorghi.

Sicuramente se ne accorge chi transita la strada provinciale: Badia Polesine – Trecenta – Ceselli, trovando dei cartelli che segnalano la presenza dei Gorghi di Trecenta. Il termine gorgo indica una cavità o specchio d’acqua tranquillo. Zona vincolata come bene ambientale da salvaguardare, (e hanno perfettamente ragione), perché per le sue caratteristiche, tale zona, è unica nel suo genere. Difficilmente nello spazio di qualche km. quadrato si trovano specchi d’acqua come questi.

La loro origine è controversa, ma questo non toglie l’interesse che i naturalisti danno a questi laghetti, che sono alimentati solo da fenomeni naturali: precipitazioni  atmosferiche, e sorgenti sotterranee, questo spiega perché il livello delle loro acque è sempre più o meno lo stesso, pur non avendo ne emissari ne immissari, senza che queste acque intorpidiscano ne marciscono come fanno le acque stagnanti. La tesi più verosimile sostenuta dagli esperti è che centinaia di anni fa in questa zona transitasse un ramo del fiume Po, quello detto di Este (in tempi remoti si sostiene che il Po invadesse anche i Padovano). Nel corso dei secoli questo ramo per fenomeni naturali venne coperto dalla terra, ma che ancora adesso in profondità se ne trovano le tracce, le quali salendo in superficie alimentando questi specchi d’acqua.( Chi scrive è un ammiratore del fenomeno ma non un esperto,

e gradirebbe contattare chi ne sa di più). A chi può interessare diciamo che già a Pissatola frazione di Trecenta, si trova uno di questi gorghi, chiamato Malòpara proseguendo si arriva alle porte di Trecenta, fra le “scalinà e il vecchio Ospedale se ne  poteva trovare un’ altro ( negli anni trenta e stato interrato, peccato), la stessa sorte e toccata al Gorgo Spino che si trovava a est de del paese sulla strada per Bagnolo Po, ancora oggi via Gorgo Spino, questo e stato trasformato in riserva di pesca, l’intervento dell’uomo gli  ha fatto perdere le sue caratteristiche, peccato.

Dall’altra parte de paese a ovest in via Argine Bottazza a due km dal centro,  troviamo a sinistra il Gorgo Bottazza, e a destra il Gorgo della Gaspara, tutti e due con qualche modifica sono utilizzati per l’allevamento del pesce, se guardiamo dal punto di vista economico sono una risorsa, però da quello ambientale una rovina. Fatti qualche centinaia di metri proseguendo per una strada sterrata ne troveremmo uno (se non fosse stato colmato) che si chiamava Gorgo Canalizzo, o gorgo Bianco.

Sorte diversa per fortuna  è stata riservata a un bel gorgo sopravissuto, la sua caratteristica è l’essere diviso in due dalla strada, lo troviamo un poco più avanti a destra e sinistra, il Gorgo Magon.

A questo punto il viaggiatore è costretto a spalancare gli occhi , perchè la scena che si troverà davanti lo farà rimanere a bocca aperta, trovandosi in presenza del  più bello e  più famoso dei Gorghi, il Gorgo della  Sposa, chiamato così perché pare ( come dice la leggenda) che in quelle acque sia annegata una sposa infelice che ha preferito al posto di sposare l’uomo non amato di  morire annegata.( la storia romanzata la  troviamo in un  libro scritto dalla Dottoressa  Vacari).

Anche il Prof. e Poeta  Ario Stevanin ha scritto una poesia tragica sull’argomento dal titolo:

“La dolorosa storia della sposa infelice, tradita e scassinata”, sobrio e serio, anche se di quando in quando usa frasi spassose, specialmente quando pronuncia la morale finale.

Riprendendo il nostro viaggio a poca distanza 200 metri in linea d’aria si trovava “Al Gorghin” o Gorgo della Marzanata o Zùcolo, anche questo ha subito la brutta sorte di essere interrato. Invece a 3,5 km da Ceneselli troviamo il Gorgo di Magherino. Sarebbe meglio dire i Gorghi di Magherino, perché il canale che lo attraversa li ha divisi in due. Il canale fu costruito con la bonifica effettuata dal 1609 al 1625, voluta dall’allora Marchese Bentivoglio allo scopo di prosciugare le valli del basso Veronese. Ancora oggi tale opera si chiama il Cavo Bentivoglio.

Come si può capire i Gorghi di Trecenta, sono una realtà interessante sia dal punto di vista storico che paesaggistico e vale la pena ribadire che per fortuna sono vincolati.

Per renderci conto di quanto siano preziosi questi specchi d’acqua, specialmente i Gorghi Sposa e Magon è bene ricordare che vi nidificano molte specie di uccelli quali il tufetto, la gallinella d’acqua, la folaga, il picchio rosso maggiore, la ballerina bianca, il cannaiolo, il cannaccione, il pendolino, la gazza, la cornacchia  e sono specie in fase di estinzione quali il tarabusino, il torcicollo e la sterpazzola.

Non meno interessanti sono le piante d’acqua quali cannucce di palude, mazzorde, ninfee, nunnufero, salcirella e giaggiolo. Oltre ad alberi quali salici bianchi, pioppi neri, aceri campestri e rubinia.

Abbondavano i pesci come lucci, pesce gatti e tinche e le rane quali la raganella, rana verde, rana agile “al sultano”.

Detto questo speriamo che anche i più scettici si convincano che queste sono zone uniche e si devono salvare a tutti i costi. Sappia l’uomo che distruggendo la natura distrugge se stesso. Alcuni dati storici sono stati tratti dal sito web “I Gorghi Polesani” (http://www.smppolesine.it/gorghi)   

La pesca e il Basadone

Il rapporto tra il padrone e gli operatori era regolato da mezzadria, quello che era prodotto, tolte le spese, veniva diviso in parti uguali e come accennato all’inizio la consistenza del reddito dipendeva dalle capacità di chi operava. La riserva del Pascolon era proprietà privata e quindi non era tenuta a sottostare alle norme che regolavano la pesca, ciò permetteva di pescare specie e dimensioni non permesse agli altri pescatori. Si pescava tutto l’anno, ma il periodo più favorevole era la primavera in particolare dal 25 al 30 marzo. Infatti in quel periodo, come mi ha raccontato il mio amico Berti, si realizzava il “Basadone”.

Nel veronese in località “Baston”  e “Preon” esisteva (ed esiste tuttora) una chiusa che veniva abbassata, per sbarrare il corso del fiume Fissero-Tartaro con lo scopo di inondare le risaie delle valli veronesi. La diga si chiamava “Basadone”. L’abbassamento del livello del fiume per vari motivi permetteva una pesca abbondante anche per i nostri amici. Per festeggiare l’avvenimento il 25 marzo, in quella località, si svolgeva la sagra del pesce. I nostri amici conoscevano bene il fenomeno e per trarne il maggior profitto possibile mettevano in atto tutti gli accorgimenti e mezzi a loro disposizione quali reti, “reun” e “calti”. I calti sono recinti costruiti con canna palustre e paviera disposti in modo che il pesce era invogliato ad entrare ma poi non trovava più  l’uscita. La fatica era enorme, ma il risultato era una pesca abbondante e provvidenziale.

Il pesce pescato era venduto quasi esclusivamente a due pescivendoli ambulanti, i signori Franco Settimo e Claudio Giuseppe (detto Tamburo) i quali lo andavano a vendere ai mercati e per le contrade.

Tutto questo ben di Dio, come abbiamo visto, dava occasione per festeggiare con lauti banchetti a base di pesce, s’intende, e relative bevute e non mancavano grosse “sbornie”. Ogni fine mese i gestori della riserva provvedevano a rendere i conti ai padroni della stessa e dividere il ricavato.                                                                                                                                                                             

La cattura dello storno

Trovando nel Pascolon l’habitat naturale, gli storni qui venivano specialmente per nidificare e trascorrervi la notte. Il resto del giorno lo impiegavano a procurarsi il cibo nei dintorni. Si cibavano di insetti, semi, frutti e a fine estate, inizio autunno, quando l’uva maturava, ne facevano il loro cibo preferito con vere razzie. Quando prendevano di mira un vigneto, se non disturbati, lo saccheggiavano. Erano perfino dotati di un sistema di avvistamento per non essere avvicinati di sorpresa: mentre il grosso dello stormo mangiava, a turno, alcuni si posizionavano di vedetta sui rami più alti e davano l’allarme in caso di pericolo. Erano talmente tanti che, una volta levati in volo, formavano una nuvola  che si muoveva a onde, sicuramente era la loro strategia per non essere catturati dai predatori. Nonostante questa organizzazione, l’uomo ha trovato il sistema per catturarli.

Il periodo propizio per catturali era fine luglio, squadre di uomini autorizzati, predisponevano una trappola, che consisteva di una rete a forma di imbuto chiamata “diluvio”, opportunamente sistemata, sostenuta da pali non troppo appariscenti per non mettere in allarme gli uccelli. Si aspettava il calare della notte, quando le bestiole si accingevano a dormire. I cacciatori disposti a ventaglio avanzavano con ogni mezzo per fare rumore (pentole, bidoni, casseruole) e convogliavano la preda verso la trappola. Per ottenere un risultato più soddisfacente in fondo al tunnel accendevano un lume, le bestiole attratte dal chiarore, si illudevano di trovare l’uscita invece rimanevano intrappolate. Alla fine dell’operazione quintali di volatili erano catturati, quelli vivi erano inviati ai tiri a volo, i morti nella calca, nelle dispense delle trattorie e dei ristoranti. Morale della favola sia che ne uscissero vivi, che morti, la loro sorte era segnata. 

Il Pascolon

Prima che realizzassero la modifica del corso del fiume Tartaro (opera durata un cinquantennio), ai confini fra Trecenta e Zelo esisteva una zona lacustre denominata “Pascolon”.

Era di una bellezza suggestiva e unica, un’oasi, un vero paradiso per uccelli e pesci, un vero polmone verde. La proprietaria era la signora Avrese Marzari  Fabia nonna dell’attuale proprietario signor Canali Leopoldo (il quale mi ha fornito molti dati).

La superficie era di 17 ettari di cui solo due coltivabili, i rimanenti 15 erano coperti da acqua.  Come tutte le zone palustri si alternavano zone profonde dove abbondava l’acqua e il pesce a zone meno profonde dove esisteva una vastissima varietà di piante, sia arboree che palustri. Queste ultime oggi hanno perso la loro importanza perché sostituite da materie nuove, ma a quei tempi, in una economia povera, trovavano molti impieghi di cui parlerò più avanti.

La riserva era ben strutturata. Dalla strada principale si arrivava alla casa colonica percorrendo un stradone, il “canalizzo”, da cui partivano tanti piccoli argini e sentieri che permettevano di arrivare in tutti i punti del podere con i mezzi a ruote. Però per una buona parte delle operazioni era indispensabile la barca, essendo la pesca la maggior fonte di reddito.

Da quanto fin qui descritto si può capire che i margini di guadagno erano subordinati alle capacità di chi vi operava. A parte l’agevolazione fiscale, per il resto si doveva dar sfogo a tutto il proprio ingegno e prendere le iniziative che avrebbero permesso una vita dignitosa.

Era necessario che chi operava in un tale contesto avesse competenze agricole e sapesse destreggiarsi nell’arte della pesca. Infatti gli ultimi due coloni erano provetti pescatori, i signori Zimbelli rimasti sul posto per 15 anni e i signori Berti che hanno continuato a lavorarvi sino alla trasformazione dell’oasi in campagna a causa dei lavori sul fiume Tartaro.

Quando si transitava da quelle parti si era colpiti dal colore del paesaggio: dal verde dei salici che segnavano i confini, al giallo delle canne palustri in autunno, al color argento dei laghetti.

Altro spettacolo era il volo radente delle rondini, il cinguettio dei passeri, il canto dei merli,d egli usignoli e di tantissime altre specie di uccelli sia stanziali che di passo quali folaghe, anatre, starne. Però la colonia più numerosa era quella dello storno “storlo” che qui trovava il suo regno. Se ne poteva contare a centinaia di  migliaia, la loro presenza rendeva il posto particolare. Inoltre per gli estimatori val la pena di ricordare i concerti melodiosi che si potevano sentire, specialmente al levare del sole. La parte dei solisti era sostenuta dagli usignoli e dai merli, tutti gli altri uccelli formavano il coro.  

Il lavoro della terra, la caccia e la pesca avvenivano in un paesaggio idilliaco ed era vantaggioso mantenerlo tale. Le piante che vi crescevano erano adoperate per vari usi. La canna palustre serviva per costruire le “arele” usate anche oggi per recinzioni, supporti per intonaci nei soffitti, per riparare le piantine dal sole negli orti e tanti altri usi. La paviera serviva per fare sporte e stuoie.           

Il carezzo “careto”, altra erba palustre, serviva per fare i “balzi”, specie di corde che servivano a legare le “faie”, i covoni di frumento, impagliare le sedie, coprire le “fiasche”.

I giunchi servivano anch’essi per fare sporte, canestri. I giunchi avevano una particolarità, la loro composizione spugnosa permetteva, legati in fasci di galleggiare. Tutti o quasi dalla mie parti fino al 1950, hanno imparato a nuotare con l’ausilio di questi galleggianti, opportunamente legati al dorso.

La zona era ricca anche di arbusti: “le sanguine”, chiamate così per i loro colore rosso sangue, che servivano per fare le “nasce”, trappole per il pesce e le “granà”, scope che si adoperavano nelle stalle e sulle aie per tenerle pulite.

I “stropari”, salici gialli, le cui frasche venivano adoperate per  fare cesti, “corghi” (contenitori per polli), legare in fasci le ramaglie (fascine), per legare i tralci ai pali che sostenevano le viti e, qualche volta, per lisciare la schiena a qualche impertinente, le cosiddette “stropazà”

Tutte queste piante erano dentro l’acqua o in prossimità. Per raccoglierle occorreva essere muniti di stivali di gomma oppure a piedi scalzi, barche e apposite falci, roncole o altre arnesi da taglio. La fatica era tanta, sempre inzuppati, vuoi per l’acqua che per il sudore, il ricavo scarso, ma la povera gente si accontentava. Spesso queste operazioni venivano accompagnate da canti  ed uno dei più famosi era “Sior paron dalle belle braghe bianche fora le palanche ca anden a cà”.

Oggi, 1 gennaio 2000, la riserva è sparita, la zona umida non esiste più, ci sembra di essere economicamente più ricchi, ma invece siamo molto più poveri, ci restano solo i ricordi di una piccola oasi perduta.

Molti nostri bambini non sanno come sono fatti certi animali che popolavano le nostre fattorie. E nello stesso tempo non hanno mai sentito il canto dei grilli, quello del “cuco” e il gracidare delle rane negli stagni. Mia madre mi diceva che il canto delle rane era il loro grido all’alleluia al Cristo risorto dopo Pasqua.

Amara considerazione: andando di questo passo, l’uomo farà della terra, dono di Dio, un deserto.

Le ex cave di Trecenta

Se ti dirigi ad ovest di Trecenta, trovi cartelli che segnalano la presenza dei Gorghi. Questa zona è vincolata, a ragione, come bene ambientale in quanto per loro caratteristica, sono unici. La loro origine è da attribuire alla grande massa d’acqua che molti secoli fa defluiva verso il mare, e nelle depressioni vallive, trovando ostacoli, formava vortici e specchi. Non hanno né affluenti né emissari, si alimentano da falde sotterranee, e salvo rari momenti di forte siccità, mantengono sempre lo stesso livello.

Non altrettanto conosciuta è la presenza delle “Cave di Trecenta”. Esse si trovano a poca distanza dal paese, verso sud, totalmente ignorate, pur essendo diventate vere e proprie zone verdi e acquatiche, regno ideale per molte specie di uccelli e animali selvatici.

Nessuno si occupa della loro sopravivenza, anzi, per un periodo di tempo sono state adibite a discarica a cielo aperto, voluta non solo dai proprietari, ma tollerata anche dai responsabili comunali di allora. La cosa era nata in sordina come sempre, le immondizie erano scaricate e poi bruciate, il fumo acre appestava tutta la zona e se non fosse stato per  l’esasperazione che tale schifezza provocava, (Napoli ci insegna), capitanati dal Sig. Regolo Scadovelli, tutti i confinanti fecero un tal casino e ottennero che il misfatto cessasse, non senza qualche minaccia dei perdenti.

Anche se, al contrario dei Gorghi, le Cave sono opera dall’uomo, esse non sono meno importanti e chi si oppone alla loro rivalutazione e si ostina a non farle conoscere si macchia di un grave peccato.

La loro origine

Esse si trovano a circa un chilometro dal paese di Trecenta e a 500 metri dalla vecchia Fornace alla quale hanno fornito per molti anni terra per fare i mattoni.

Cinquant’anni fa quasi tutti i paesi della zona avevano la loro “fornace”: a Trecenta, Bagnolo Po, Zelo, Salvaterra, Calto, Ficarolo. Pur essendo un lavoro massacrante, in buona parte fatto a mano o con mezzi rudimentali, molte famiglie vi avevano trovato il modo di sbarcare il lunario. Con l’introduzione di nuove macchine e la produzione a carattere industriale, le piccole fornaci scomparirono per fare posto a poche grosse industrie di laterizi. La Fornace di Trecenta è stata una delle ultime a cessare la produzione ed ancora oggi si possono vedere alcuni capannoni che servivano come ricovero dei macchinari. Un’altra testimonianza sono appunto le “cave”.

Come avveniva il trasporto

Adesso si vedono grandi bulldozer che caricano la terra sugli autocarri per il trasporto sul luogo di utilizzo. Ma non succedeva così 50 anni fa. A quei tempi gli attrezzi adoperati erano carrelli, rotaie dove farli correre, badili e forza di braccia. I carrelli, cassoni ribaltabili su ruote, venivano caricati con la pala e poi spinti a forza di braccia lungo le rotaie, quando erano in piano tutto andava abbastanza bene, ma non potete immaginare la fatica che si doveva fare per salire sul cumulo di terra con un dislivello di parecchi metri. La fabbrica dei mattoni era già operativa prima della seconda guerra mondiale.

Durante la guerra lo stabile ospitò un deposito di merci accumulate dalle forze tedesche di cui non si sa molto perché solo in pochi avevano il permesso di entrare nei locali. Merci che, negli attimi successivi alla fine della guerra, mani laboriose fecero man bassa. Dopo la guerra la fornace riprese la sua attività normale e la situazione degli operai non cambiò più di tanto. I tradizionali badili manovrati dalle braccia furono poi sostituiti da rudimentali pale meccaniche.

Una volta caricati, i carrelli venivano trainati da cavalli, i quali rispondevano agli ordini del sig. Dante Ghiotti. Anche i cavalli furono sostituiti da trattori.

La vita della fornace in seguito, visse fortune alterne. Ad un certo punto fu ristrutturata e attrezzata con macchinari già vecchi e dopo qualche anno, verso gli anni ottanta, cessò definitivamente l’attività. Il camino fu abbattuto e gli stabili divisi ed adibiti a magazzini.  L’unica cosa interessante che è rimasta sono le cave di cui stiamo parlando.

Le cave come le vediamo oggi

Questo luogo umido se fosse tenuto bene sarebbe, dal punto di vista naturalistico, una cosa splendida, un vero gioiello. Nonostante il degrado in cui è stato lasciato dagli attuali proprietari, negli specchi d’acqua e al riparo delle piante spontanee, trovano rifugio molte specie di uccelli, da quelli stanziali a quelli di passo: starne, folaghe, anatre, oche, usignoli, merli, fringuelli, passeri, tortore, gallinelle d’acqua. Solo un esperto e amante della natura potrebbe continuare. Quando si sveglia la natura, in primavera, si sentono concerti melodiosi.

Oltre a salici verdi e gialli (strope), acacie, pioppi, gli stagni danno la vita a piante palustri: paviera, canna palustre, caretto, giunchi. E’ l’ambiente favorevole anche ad animali come lepri, conigli selvatici ecc. Nelle sue acque vivono diverse specie di pesci e rane di tutti i tipi, perfino rane bue. Specialmente in primavera, sia all’alba che al tramonto le rane gareggiano con gli uccelli intonano cori stupendi. Ultimamente a dire il vero questi ultimi hanno una vita più difficile a causa dell’inquinamento, causato da pesticidi e veleni usati in agricoltura, da gente senza scrupoli e poco controllo.

Come si può vedere è una risorsa per la zona e quindi dovrebbe essere tutelata. Per fare questo ci vogliono risorse, impegno e competenza. Dopo un periodo di totale abbandono il degrado raggiunto era spaventoso. Ora le cose sembrano in via di miglioramento, ma c’è voluta la laboriosità di due persone squisite, padre e figlio, che dedicano il loro tempo libero ottenendo risultati apprezzabili. Hanno tracciato sentieri, camminamenti, posti di avvistamento, pulito il sottobosco. Tutti lavori che costano sacrifici, tempo e danaro. Sarebbe cosa apprezzabile se anche altre persone sensibili collaborassero volontariamente visto che le istituzioni pubbliche di queste cose si disinteressano. Purtroppo si trovano più spesso persone incivili, poco educate, che con il loro scorazzare, deturpano il poco che è stato fatto e molestano gli animali e gli uccelli che abitano il luogo. Mi duole purtroppo constatare che ultimamente le cose  stanno peggiorando.

I sotterranei del Palazon

A quei tempi i sotterranei del Palazon erano usati come cantina perché l’ambiente era più che ideale, fresco, umido quanto basta e ventilato per evitare muffe dannose.

Purtroppo per renderlo adatto allo scopo si dovette procedere ad una grossa trasformazione. Parte dei sotterranei non erano livellati ed il pavimento era sconnesso. Per rendere i sotterranei adatti allo scopo furono interrati. Già lo erano parzialmente a causa dai detriti portati dai corsi d’acqua sotterranei ma il definitivo livellamento è avvenuto per opera dell’uomo. Basti pensare che per fare ritornare i sotterranei come li vediamo oggi ci vollero molti mesi di scavo. 

Sul pavimento livellato furono sistemati grossi tini e capienti botti, talmente grandi da avere bisogno di una porticina stagna che permettesse ad un  uomo di entrare ad effettuare la pulizia del deposito prodotto dal vino.

L’uva era conferita dai contadini che lavoravano i terreni della Tenuta Spaletti. Essi si dividevano in due categorie: i Mezzadri e i Trentotto. I primi conferivano la metà dell’uva che producevano, i secondi il sessanta due per cento della loro produzione.

Il vino una volta fermentato nei tini, era travasato nelle botti. Il cantiniere esperto in materia era il sig. Zanella Giovanni. Una volta giunto a maturazione il vino veniva venduto. Ovviamente i Conti Spaletti pasteggiavano con il Chianti.

Termino il mio racconto con la convinzione che se chi ha preso certe decisioni fosse stato meno superficiale, certe nefandezze non si sarebbero verificate. Però deve anche essere sottolineato, che per la sensibilità di altre persone questo gioiello, “El  Palazzon”, è tornato agli antichi splendori.