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Ruoli sbagliati

In un luogo  depresso della Val padana,
si verifica un cosa anomala e strana.
Certi intellettuali hanno cosi poca coltura,
per loro era meglio che si fossero dati all’agricoltura.
Trovi invece operai e contadini,
con certi cervelli svegli e sopraffini.
Non è raro sentire dire “taci contadino”
Il furbo che parla se si specchia si trova davanti un poverino.
Ma essendo lui uno sfacciato,
nei posti riservati è chiamato.
Come si può capire, con la tasta che ha,
dove va finire questa comunità.
Con questo chiaro di luna,
le forze migliori altrove vanno a trovare fortuna.
Il modo giusto per  risollevare  l’ambiente,
è di mandare a casa l’inefficiente.
Lo so tutto questo è pura fantasia,
ma solo così si salverebbe il paese dalla carestia.
La società ha bisogno di menti illuminate,
e non teste vuote anche se laureate.
Solo così il luogo oggi depresso,
domani vedrebbe benessere e progresso.

Rivisitazioni di un fenomeno vissuto

Mi trovavo a conversare con vecchi amici quando prese la parola un conoscente, che era nato a Trecenta e che a vissuto i primi anni in paese e poi è dovuto emigrare a Genova per ragioni di lavoro, tornato  pensionato, asseriva che trovava difficoltà a conoscere certi  vecchi paesani coetanei, mentre ne ricordava bene certi altri. Fin qui niente di male, lo strano era che conosceva bene quelli di un parte del paese, quelli del centro, mentre aveva difficoltà per quelli di periferia. Non essendo la prima volta, ne il primo che sento constatare questo, espongo al riguardo una mia tesi che ha un certo fondamento.
Nei piccoli paesi fino agli anni cinquanta-sessanta (non è che ora le cose siano molto cambiate) la popolazione era divisa in più categorie: ricchi-poveri, istruiti-semi analfabeti, possidenti-nulla tenenti, tutte queste categorie si dividevano ulteriormente: in cittadini quelli che gravitavano attorno al paese, e  i cafoni relegati nelle campagne, chi ha decretato queste regole non si sa, ma esistevano e se avete un po’ di pazienza provo spiegarle con alcuni esempi, io che le ho vissute sulla mia pelle.
Da tenere presente, le differenze sociali sparivano fra gli abitanti del centro quando dovevano fronteggiare i periferici, e arbitrariamente si arrogavano diritti e previleggi a loro piacimento. Provo esporvi alcuni fatti che mi sono successi personalmente e in compagnia: il primo che mi viene in mente è a dir poco incivile se non di peggio, noi bambini per tornare a casa da scuola usavamo un sentiero in riva all’argine del fiume Tartaro (usavamo tale strada per due motivi, uno perché era ombreggiata, due perché d’estate ci permetteva di levarci  i sandali che chiamavamo “fratin” per risparmiarli). Quel giorno la compagnia era composta da sette-otto bambini e bambine si parlava e si rideva, quando da un cespuglio sbucarono tre “spiazzirotti” abitanti di un via a quei tempi ritenuta poco educata: “le Cavalle” la loro età era maggiore di qualche anno alla nostra, giunti in nostra presenza avanzarono l’imposizione che alcuni di noi, i più grandi assaggiassero i loro escrementi appena prodotti, al nostro naturale rifiuto passarono a obbligarci con la forza, come sempre per fortuna è arrivato lo “Zorro” di turno, un nostro amico più grande di noi, che avendo terminato l’obbligo scolastico, tornava a casa anche lui dopo la mattinata passata come garzone da un calzolaio. Visto la scena non ha esitato un solo momento a gettare nel fiume i tre prepotenti con i pantaloni ancora a mezza gamba. Ha fatto anche di più, li ha ammoniti che se la cosa si fosse ripetuta, oltre il bagno avrebbero assaggiato il sapore di un bastone. Forse voi non crederete ma non siamo più stati molestati.
Il resto delle mie argomentazioni si riferiscono a fatti che mi videro protagonista in prima persona, frequentavo l’oratorio, dove tutti a parole dovevamo avere i stessi diritti, questo era sancito da un regolamento, ma come si sa in tutte le occasioni della vita c’è sempre qualcuno che vuole fare il furbo.
Una delle regole stabiliva che se c’erano più ragazzi che volevano giocare a ping-pong, sia che si giocasse il singolo che il doppio finita la partita si doveva lasciare il tavolo alla coppia seguente.
Chi ha giocato, sa che le partite finivano al raggiungimento del ventunesimo punto.
Arrivo con un mio amico e trovo il tavolo occupato, la partita era sul 12 pari, dopo un po’ le sorti erano cambiate, 17 a 15, a questo punto qualcosa ci ha distratti e ci accorgemmo che dopo tre minuti erano solo sul 15 a 13, li abbiamo ammoniti che non facessero i furbi e che terminassero la partita, il consiglio non venne ascoltato e continuarono la manfrina. Dopo un’ulteriore sollecitazione ci sentimmo rispondere: “Cosa volete voi che siete solo capaci a zappare la terra”, avete capito bene erano due “spiazzaroti”.
Al sentire queste parole mi è venuta la mosca al naso, (non so il perché in questi casi mi viene una forza!). In un baleno ho preso per il bavero il più piccolo, per ovvie ragioni, invitandolo a ritirare le parole poco prima pronunciate, non solo non le ha ritirate, ma ne ha aggiunte delle altre che non nomino, non ha neppure terminato l’ultima sillaba che si è visto arrivare due ceffoni sul viso delicato da signorino sfasciato, le mani erano quelle ruvide di un contadino, le mie. Dopo questo episodio siamo diventati amici, e solo più tardi  si è ricreduto confidandomi che quei ceffoni se li era meritati. L’episodio  che vi racconto ora è successo molto prima, si stava giocando a palline in Piazza S. Giorgio, il solito furbo della stessa risma del primo ci impediva di giocare, dopo due o tre sollecitazione a smetterla, senza ottenere risultato, cercai di prenderlo ma lui  fuggi via come un razzo, lo inseguii per regolare il conto, in fretta si infilò in un cancello li adiacente, vista l’impossibilità di raggiungerlo le sferrai un calcio nel sedere tale che lo fece ruzzolare per terra. A voi immaginare le condizioni dei suoi ginocchi. So di non essermi comportato bene ma cosa volete farci, era più forte di me. Per completare il mio argomentare quello che non potevo sopportare era il comportamento di certe maestre che facevano le differenze, stravedevano per certe pupattole e pupattoli e snobbavano i ceti ritenuti a torto inferiori. Ringrazio Dio di avermi dato una maestra molto diversa da queste, una vera educatrice. La maggior parte di quei damerini sopra menzionati, se hanno raggiunto certi traguardi non è stato per la loro testa ma per il portafogli dei loro genitori. Conclusione, il  signore che si ricordava di alcuni e non di altri  può trovare la risposta nelle argomentazioni da me esposte, ricorda solo quelli del suo giro e ignora quelli che ignorava anche quando era giovane. Penso che abbiate capito che sono orgoglioso di essere stato contadino e figlio di contadini.

Origini della polenta

A Bagnolo i mette su al parolo.
In Berguarina i sdazza la farina.
A Tresenta i mena la polenta.
In Vallalta i la ribalta.
A Crosetta i la fetta.
A Badia i la da via.
A Canda i la da via con na stanga.
A Baruchella i la rustise sulla gradela.
A Zelo, Giazan, e Menà i la magna col bacalà.
Morale:
Adesso a sen tutti siori e la polenta,
le deventà na prelibatezza succulenta.
Par i nostri antenati chi condusea na vita agra,
la iera balsamo, anca sla ghe fasea venere la pelagra.

Constatazione e conferma

Noi abitanti dell’alto Polesine abbiamo imparato un dialetto ibrido, non è ferrarese, non è veneziano, tantomeno mantovano. E’, per usare una parola in voga, trasversale.
Per esempio mio padre è veneto, la mia mamma mantovana, di un paese che confina col ferrarese, potete quindi immaginare che razza di dialetto sia il mio!
Ho lavorato per vent’anni in un’azienda che commerciava materiali edili, e lo stesso manufatto era contraddistinto con nomi diversi: blocco, ramenato, cavaloto, soraus, architrave e dalla richiesta fattami, capivo subito il paese di provenienza del cliente.
Chi mi chiedeva il “blocco” arrivava o abitava nella zona verso Verona, chi mi chiedeva il “ramenato” lavorava nel Medio Polesine, il “cavaloto” era dei paesi limitrofi. Il “soraus”, invece lo richiedeva chi risiedeva a Ficarolo o dintorni. Chi invece parlava italiano, lo chiamava col nome corretto di “architrave”.
Cito un esempio significativo: un giorno si presenta un sacerdote di mia conoscenza e mi chiede un sacco di “palazola”. Dentro di me penso “Latino non mi sembra e un nome religioso nemmeno”. Per cui per poterlo servire, mi sono fatto spiegare, con altre parole, cosa voleva veramente e questi mi ha risposto che desiderava semplicemente calce da muro. Questo sacerdote ora è un alto prelato che vive a Roma e spero non abbia più bisogno di sacchi di “palazola” poiché immagino come il povero commerciante romano sicuramente in imbarazzo anche più di me.
Altro atteggiamento curioso è quello della gente che parla il dialetto della sinistra del Po, nella zona del Ferrarese. Spesso chiedevano un oggetto in dialetto per poi ripeterlo immediatamente dopo in italiano: ad esempio “Al m’daga, mi dia…”. Che rabbia mi facevano, davano sempre per scontato che io non li capissi e in qualche modo mi facevano passare per ignorante.
A confermare la mia tesi voglio proporvi due modi di interpretare il dialetto nella nostra zona. Le seguenti maniere di dire mi sono state trasmesse da mio papà, anche lui fornito di un carattere estroverso come il mio, ed è mia opinione che non è sempre vero che il nostro modo di parlare rispecchiasse quello della nostra mamma. Infatti il mio dialetto è più simile al dialetto paterno. Per finire, ecco due piccole filastrocche, la prima in puro dialetto ferrarese mentre la seconda, nella lingua paterna, ossia veneta.

Pubblicata in Experienzia, giornale Università Popolare Polesana, anno 2004

Pubblicato su il Mensile L’ADESE

Raccolta delle noci

Tanti, tanti anni fa, quando ero bambino, nei mesi di settembre ed ottobre potevo partecipare alla festa dalla raccolta delle noci.

Visto che oggi si fa festa per svariati motivi. Da quella delle fragole, delle mele, delle ciliege, del radicchio, del cavolo, io posso dire di avere preceduto tutti negli anni cinquanta, dunque, primato.

Come si svolgeva! Lo zio Dante qualche giorno prima ci avvertiva che domani si va a raccogliere le noci. Era sempre di Domenica pomeriggio.

I più giovani della famiglia patriarcale, meglio dire delle famiglie, quattro nuclei, con qualche adulto capitanati dal Dante si partiva muniti di scale e lunghi bastoni e naturalmente dei contenitori.

Si arrivava allegri nei pressi del lungo filare, che era il nostro noceto e iniziava la raccolta.

I più svelti salivano sugli alberi, altri con i bastoni, i più piccoli raccoglievano per terra. Se questa non era una festa con che altro nome si poteva chiamare?

Si arrivava a sera con i sacchetti pieni se il raccolto era abbondante. Se no, ci si accontentava. L’importante era avere passato una giornata in allegria.

Tornati a casa stanchi ma felici, assistevamo alla cernita. Le noci normali da una parte, i “nosun” dall’altra. A ogni nucleo famigliare era assegnata la sua parte in proporzione ai componenti, io ero il quarto fratello più papà e mamma, sei. In quei tempi il prodotto era sano, le piante non avevano bisogno di antiparassitari. Oggi se non tratti non produci niente. Forse è per questo che la società odierna è bacata. Scusate la divagazione. Una volta divise, venivano appese di giorno sul balcone di ogni stanza dei nuclei famigliari così che, dopo qualche tempo, si ottenevano frutti croccanti e gustosi. Anche se qualcuno faceva il furbetto del sacchetto, la mamma le distribuiva giorno per giorno. La vita contadina sarà stata grama, ma io spesso la rimpiango. Allora ci si accontentava di poco se la paragoniamo a oggi dove i figli delle “famiglie bene” fanno i delinquenti. Preferisco pensare alla famiglie contadine, quelle sì che erano “famiglie bene”.          

Condizione di vita dei contadini 1945-1955

Premetto che non sono uno storico e quanto leggerete sono ricordi di quando avevo 10-15 anni: quindi spero non me ne vogliate per le inesattezze e le forzature.

Si usciva da una lunga e disastrosa guerra, che aveva lasciato dietro di sé distruzione e miserie. Come sempre chi esce peggio da queste sventure sono i poveri e i deboli, ed una categoria debole erano i contadini. Al mio paese la forza lavoro era composta da una minima parte di operai occupati presso una fornace di mattoni, qualche dipendente pubblico, qualche professionista e qualche commerciante: ma la maggior parte, circa l’85 – 90% trovava sostentamento nel lavoro dei campi. I contadini potevano essere suddivisi in proprietari, fittavoli, mezzadri, coloni o “38” e braccianti.

I proprietari erano la categoria benestante, lavorava la terra di proprietà, possedeva bestiame, attrezzi agricoli e, qualcuno, anche il trattore (il grosso della meccanizzazione si è avuto negli anni 60 e 70).

I fittavoli non possedevano terreni ma li avevano in affitto (la mia famiglia era in questa categoria); il loro tenore di vita era soddisfacente e gestivano l’azienda a loro discrezione. Anch’essi possedevano vacche, cavalli ed attrezzi per lavorare il terreno.

I mezzadri, al mio paese, lavoravano soprattutto nella “tenuta Spaletti”, un vasto podere che copriva almeno la metà dei terreni coltivati della zona. Essi abitavano nei pressi dei terreni che lavoravano, usavano attrezzi ed animali da lavoro di cui, come si intuisce dal loro nome, erano padroni a metà. Non pagavano l’affitto, ma dividevano a metà sia le spese che i ricavi con il proprietario dei terreni. Non pativano la fame, ma il loro tenore di vita era molto basso. Le loro famiglie erano numerose perché c’era la necessità di molte braccia per il lavoro.

I coloni o “38” erano l’ultima categoria di contadini che potevano disporre di terreno sicuro da lavorare. Non possedeva né attrezzi, né animali, partecipavano alle spese e ricevevano il 38% dei ricavi (data la loro scarsa dimestichezza con il far di conto, era per loro difficile fissare le quote di spesa e ricavo, ed il proprietario spesso ne approfittava). La loro era una vita difficile, ma sopportabile.

I braccianti (o compartecipanti), come dice il nome, nel lavoro dei campi mettevano solo le braccia. Questa era la categoria più disagiata e quanto descritto finora serve esclusivamente per focalizzare la loro posizione nel lavoro agricolo.

Erano la maggioranza, il 50-60% degli abitanti della zona. Nelle loro famiglie quasi tutti lavoravano la terra (solo in tempi più recenti i giovani poterono essere avviati ad altri mestieri). Il loro lavoro era precario, nei primi mesi dell’anno veniva assegnato loro della terra in proporzione al numero dei componenti della famiglia (terra da zappa) che veniva coltivata generalmente a mais (che noi chiamavamo granoturco), barbabietole o canapa. A maggio, con la stessa modalità, veniva assegnato una quota di terra coltivata a frumento. Quando il grano era maturo, lo mietevano e lo trebbiavano in collaborazione con il proprietario dei campi. A fine annata agraria potevano prendere per sé una quota del grano, il 38% posto in granaio oppure il 33% posto in “crosetta”. In “crosetta” significa che il bracciante ha partecipato alla sola mietitura, mentre in “granaio” il bracciante ha partecipato anche al trasporto, alla trebbiatura e all’immagazzinamento nel granaio del proprietario

Questo grano e un po’ di soldi ricavati dalla vendita delle quote di mais, di barbabietole e di canapa dovevano soddisfare il fabbisogno della famiglia. I conti li facevano sempre i proprietari: se erano onesti davano il giusto, ma più spesso i braccianti rimanevano gabbati perché a quei tempi erano in pochi a sapere far di conto.

Mi hanno raccontato che un proprietario aveva uno strano modo di fare i conti, quando faceva le operazioni aritmetiche ad alta voce, per essere più credibile, penna alla mano, diceva. “Zero infia zero, zero. Zero infia zero, zero”. “Infia” significa “gonfia” e veniva usato al posto di “per”. Comunque il risultato era sempre zero e un contadino si ribellò replicando: “Al lasa lì da infiar cal zer, se no a m’lo fa sciupar.” Ovvero “La smetta di gonfiar quel zero, so no me lo fa scoppiare”. Un’altra storiella che mi è stata riferita, parlava di un povero padre di famiglia, che a primavera non aveva più niente da dare da mangiare ai figli ed era quindi andato dal proprietario a chiedere del frumento per fare il pane. Al che gli venne proposto l’iniquo contratto “Io ti do un quintalone ora e tu mi restituisci due quintalini alla raccolta dopo la mietitura”. Queste sono storielle ma non molto lontano dalla realtà di quei tempi.

Dal mais e dalla canapa i braccianti potevano ricavare anche i “castlun”, i tutoli delle pannocchie, e gli “stechi”, la parte legnosa della canapa, che potevano bruciare nel camino d’inverno per riscaldarsi. Un ulteriore aiuto veniva dalla quota di giornate di lavoro assegnate ai capifamiglia e ai figli maschi maggiorenni da un’apposita Commissione formata dai rappresentanti delle varie categorie. I proprietari, fittavoli e mezzadri mettevano a disposizione una percentuale di terra adibita a grano o ad altre colture che andava a formare una quota di giornate lavoro sulla terra che la Commissione metteva a disposizione dei braccianti.

Ho scritto che il lavoro dei braccianti è precario, infatti ogni anno non c’era alcuna garanzia di poter andare a lavorare presso lo stesso datore di lavoro, né la disponibilità di terra da zappare o mietere. Se si aggiungeva poi il rischio della siccità o di altre calamità naturali, molte volte non c’era di che dare da mangiare alle numerose bocche in famiglia. Consapevole che il solo lavoro della terra non bastava, ogni famiglia si dava da fare come poteva. Io abitavo ai quei tempi vicino ad un fiume e ricordo bene quanto era importante la pesca: in ogni momento dell’anno, i miei amici e compagni di scuola, nel loro tempo libero, con i loro genitori, si davano un gran da fare con canne da pesca, reti ed altre attrezzature simili: se la pesca lungo il fiume era abbondante si poteva anche ricavare qualcosa con la vendita del pesce ai vicini di casa. Un’altra fonte di guadagno era l’allevamento di oche, anatre e conigli, qualcuno possedeva anche un maiale. Comunque sulla tavola spesso non c’era pane a sufficienza e la carne la si mangiava solo la Domenica. Al posto del vino c’era la “graspia”, una bevanda ottenuta dalla macerazione in acqua delle vinacce (quel che rimaneva dopo aver estratto il vino). Ricordo che io ed i miei cugini scambiavamo il nostro vino buono con la “graspia”, perché piaceva tanto ai bambini, in quanto era più leggera e frizzante.

Al posto del pane c’erano le patate cotte in vario modo, al posto della carne c’erano le uova o i fagioli e a volte nulla. Un grande aiuto arrivava in dicembre quando si poteva macellare il maiale (se non era già stato venduto per pagare i debiti) dal quale si ricavavano i salumi, il lardo e lo strutto. I salumi sostituivano la carne fresca: “Quanto erano buoni i cotechini e la minestra fatta col il brodo di cottura!”, ma forse era solo la fame. Il lardo insaporiva la minestra, con lo strutto si friggeva, si condiva il pane e veniva usato per tanti altri impieghi.

A voi che andate nei centri commerciali e negli ipermercati sembrerà ridicolo, ma ai quei tempi ogni famiglia povera si presentava dal salumiere o dal pizzicagnolo con un libretto. La magra spesa che il capo famiglia od un suo incaricato faceva non poteva essere pagata  subito, (non c’erano soldi), ma veniva registrata in duplice copia sul libretto, uno per ogni famiglia e uno per ciascun commerciante. Un paio di volte all’anno si faceva la somma e si pagava il debito accumulato. Se non si poteva pagare, spesso il negoziante smetteva di fornire merce ed erano guai: i commercianti, nonostante tutto, era una categoria potente e benestante.

A quei tempi erano pochissime le merci confezionate e non di rado si veniva imbrogliati sul peso. Ci si doveva portare da casa i contenitori per l’olio, l’aceto, il petrolio per illuminazione. Il reso e la pasta erano venduti in sacchetti di tela. Per lo zucchero si usava la “carta da zucchero” conosciuta anche oggi per il suo particolare colore.

Credo che siano ormai chiare le condizioni di vita delle famiglie dei braccianti. Nonostante questo, i benestanti dell’epoca li consideravano dei fannulloni e degli attaccabrighe. Ancora oggi mi chiedo come si potesse pretendere dai braccianti un atteggiamento sottomesso data la loro vita di debiti, fame, miseria e sfiducia: arrivare alla fine della giornata era la loro massima aspirazione.

Vi racconto un aneddoto che un mio amico di gioventù mi racconta spesso quando ci incontriamo durante le ferie. Era consuetudine che il pagamento dei braccianti avveniva solo dopo la raccolta, quando si dividevano i prodotti o i soldi ricavati dalla vendita. Solo pochi datori di lavoro anticipavano compensi durante l’anno. Uno di questi era mio padre. Durante le feste natalizie, questo vecchio amico, dopo aver ricevuto alcuni acconti, veniva a casa nostra per ricevere il saldo finale. Quell’anno, carte alla mano, risultò che aveva ricevuto in acconto mille lire in più del dovuto. Ma dopo cinquant’anni, quando mi vede mi ripete sempre la stessa cosa: che a quella notizia egli era caduto nello sconforto, ma che invece mio padre gli disse “Tu dovesti dare mille lire a me. Ma capisco la situazione e sai cosa faccio? Do io invece mille lire a te.”. E che poi corse per tre chilometri fino a casa per consegnare il denaro alla madre e che quell’anno poté festeggiare il Natale come noi. E che si ricorda quel fatto come se fosse ieri ed invece era il 1949.

Data la situazione, le masse contadine incominciarono a far scioperi e a manifestare. Lo sciopero che ho più impresso nella memoria è quello del maggio del 1948: iniziò il 5 e finì il 29. Lo ricordo bene per due motivi. Per prima cosa mi ricordo delle terre incolte e dei raccolti compromessi, dei muggiti delle vacche in stalla che nessuno mungeva.

Ma ricordo anche di un giovane assassinato con un colpo d’arma da fuoco. I fatti si svolsero più o meno così: dopo un paio di settimane di sciopero la situazione si era aggravata e rischiava di precipitare: nelle stalle il bestiame veniva alimentato di nascosto dai cosiddetti “crumiri” e per impedirlo gli scioperanti avevano istituito ronde e picchetti. Bastava una scintilla per far scoppiare il fuoco. Spesso interveniva la “Celere” (una squadra di pronto intervento della Polizia nota per la sua brutalità), con conseguenti scontri, manganellate ed arresti. Una sera si diffuse la voce che gli scioperanti avevano preso in ostaggio alcuni agenti di Polizia. Gli scioperanti dalla campagna e le squadre di Polizia si precipitarono in paese in un caos infernale nel mezzo del quale si udirono degli spari ed un giovane di nome Evelino Tosarello cadde morto. La giornata si sarebbe conclusa in modo ancor più tragico se l’allora Monsignore Don Graziano Lucchiari, chiamato ad amministrare gli ultimi conforti religiosi, non fosse riuscito a calmare gli animi. Recandosi all’ospedale, passando in mezzo alla folla inferocita, forte del prestigio e del rispetto che i paesani gli tributavano, richiamò tutti al dovere, di fronte alla morte, di sentirsi fratelli.

Avevo solo dieci anni ed il fatto mi colpì molto, e ancora adesso mi chiedo perché deve sempre morire qualcuno prima che si risolvano i problemi.

Seguirono altri scioperi, venne l’alluvione del Polesine nel 1951, la miseria crebbe e molte famiglie dovettero emigrare verso la Lombardia ed il Piemonte. I paesi si spopolarono, il mio passò da 8000 abitanti a circa 3000. Si diceva che il Po, rompendo gli argini, ha portato l’acqua al mare ed i Polesani in Piemonte.

Per chi è emigrato, i primi momenti sono stati duri, c’era il lavoro ma non c’erano le abitazioni, c’era difficoltà di inserimento e nostalgia per la terra lasciata. Ma ne è valsa la pena, alcuni miei amici d’infanzia hanno comprato l’appartamento, hanno fatto studiare i figli, si sono presi i loro meritati periodi di vacanza. Quando partirono, erano considerati fannulloni e straccioni, ma con la loro forza di volontà ed il ritrovato entusiasmo, hanno contribuito al miracolo economico degli anni ’60. Sono partiti piangendo, ora tornano con i capelli bianchi ma con la consapevolezza di chi si è realizzato.

Sento il dovere di ringraziarli perché con la loro partenza hanno consentito anche a chi è rimasto di vivere e migliorare. Loro hanno avuto coraggio e hanno capito che la terra Polesana era troppa piccola e avara per sfamare tutti.

 La famiglia di braccianti nel 1942
 La stessa famiglia nel 1964 emigrata a Milano nei primi anni 50.

Vita contadina – Ricordi d’infanzia

Questi ricordi perché siano più comprensibili, a chi ha la compiacenza di leggerli, hanno bisogno che siano precisate alcune cose. Essendo passati multi anni, questi ricordi possono essere lacunosi, inoltre non vogliono essere storia, ma memoria, troverete alcune parole in dialetto, questo per dare più sapore e genuinità alla narrazione, per molti quello che vado raccontando sembrerà non reale, fantascienza, invece è la fotografia di come era la vita contadina in quel periodo, fino gli anni cinquanta-sessanta. La vita rurale ha sempre avuto dei tempi precisi e ripetitivi. Se sembrerà strano come inizio questa narrazione, devo dire che il motivo è quello di  capirla meglio e quindi é necessario incominciare dai lavori di fine estate- autunno,il ciclo dei lavori nei campi non inizia con la semina, ma per ottenere buoni raccolti é necessario preparare bene il terreno,in autunno, che poi i ghiacci invernali provvederanno a sterilizzare e renderlo pronto per ricevere le sementi in primavera.

Concimazione

Prima di provvedere ad arare il terreno era necessario concimare. Se pensiamo che i concimi chimici hanno avuto la loro diffusione su larga scala solo nel dopo guerra, l’unico concime a disposizione era il letame. Ogni azienda agricola, oltre la casa colonica, magazzini, aia, aveva la stalla per il ricovero degli animali. Per lo più buoi e cavalli che con i loro escrementi producevano letame che veniva ammassato nel letamaio ovvero il “lodamaro”. Se ben ammassato dopo un anno risultava un ottimo concime organico, indispensabile per il terreno. A fine estate si provvedeva a spargerlo sui campi liberati dai raccolti. In mancanza dei trattori (che sono arrivati più tardi) gli unici mezzi a disposizione erano carri a quattro e due ruote, carretti o “borozze”, trainati da buoi o cavalli. Il letame, una volta caricato, veniva portato nel campo, si formavano dei cumuli “motte”che poi venivano sparsi sul terreno in modo uniforme. Chi effettuava questi lavori non aveva a disposizione stivali di gomma o tute o guanti ma lavorava a mani e piedi nudi.

Perché la concimazione fosse efficace era necessario provvedere ad arare il terreno il più presto possibile, per evitare l’essiccazione del letame ed eliminare l’odore non proprio salubre che esso emanava.

Arratura

Già sappiamo che la motorizzazione è venuta dopo mentre prima solo poche grosse aziende erano in possesso di trattori e per lo più erano macchine a vapore.

La maggioranza delle aziende facevano uso dei buoi per l’aratura. L’operazione si svolgeva in questo modo, i buoi erano aggiogati a coppie compatibili, fatti uscire dalla stalla, messi in fila davanti all’aratro. Le coppie venivano collegate una all’altra attraverso un palo di legno duro che chiamavamo “zarla”. Il collegamento veniva da giogo a giogo, ogni coppia era dotata di una “cavezza”, una corda che serviva al conducente se ve ne fosse stato bisogno. Ma erano talmente addestrate che solitamente bastava la voce. Questa fila che noi chiamavamo “tiro”, poteva essere composta da quattro, cinque o sei coppie, dipendeva dalla disponibilità che aveva l’azienda.

La coppia capofila era sempre la più intelligente e rispondeva sempre ai comandi del bovaro. La coppia più forte era agganciata al timone dell’aratro. Le coppie davanti, alla fine dei solchi, venivano chiamate, rallentavano e girava a destra se veniva detto “to”o a sinistra se vaniva gridato “ei”. Invece la coppia al timone, mentre le altre giravano, rimaneva da sola a tirare l’aratro. Questa coppia era spesso formata da buoi maschi.

Gli uomini impiegati era due. Quello che dirigeva armato di “scuria” frusta, che adoperava raramente ed un  secondo attento al “varsuro”, aratro.

Il ricordo di queste scene, queste lunghe file di buoi così disciplinati che ubbidivano ai comandi alternati da cantilene, mi conferma che sia l’uomo che gli animali sono creature di Dio.