Il Pascolon

Prima che realizzassero la modifica del corso del fiume Tartaro (opera durata un cinquantennio), ai confini fra Trecenta e Zelo esisteva una zona lacustre denominata “Pascolon”.

Era di una bellezza suggestiva e unica, un’oasi, un vero paradiso per uccelli e pesci, un vero polmone verde. La proprietaria era la signora Avrese Marzari  Fabia nonna dell’attuale proprietario signor Canali Leopoldo (il quale mi ha fornito molti dati).

La superficie era di 17 ettari di cui solo due coltivabili, i rimanenti 15 erano coperti da acqua.  Come tutte le zone palustri si alternavano zone profonde dove abbondava l’acqua e il pesce a zone meno profonde dove esisteva una vastissima varietà di piante, sia arboree che palustri. Queste ultime oggi hanno perso la loro importanza perché sostituite da materie nuove, ma a quei tempi, in una economia povera, trovavano molti impieghi di cui parlerò più avanti.

La riserva era ben strutturata. Dalla strada principale si arrivava alla casa colonica percorrendo un stradone, il “canalizzo”, da cui partivano tanti piccoli argini e sentieri che permettevano di arrivare in tutti i punti del podere con i mezzi a ruote. Però per una buona parte delle operazioni era indispensabile la barca, essendo la pesca la maggior fonte di reddito.

Da quanto fin qui descritto si può capire che i margini di guadagno erano subordinati alle capacità di chi vi operava. A parte l’agevolazione fiscale, per il resto si doveva dar sfogo a tutto il proprio ingegno e prendere le iniziative che avrebbero permesso una vita dignitosa.

Era necessario che chi operava in un tale contesto avesse competenze agricole e sapesse destreggiarsi nell’arte della pesca. Infatti gli ultimi due coloni erano provetti pescatori, i signori Zimbelli rimasti sul posto per 15 anni e i signori Berti che hanno continuato a lavorarvi sino alla trasformazione dell’oasi in campagna a causa dei lavori sul fiume Tartaro.

Quando si transitava da quelle parti si era colpiti dal colore del paesaggio: dal verde dei salici che segnavano i confini, al giallo delle canne palustri in autunno, al color argento dei laghetti.

Altro spettacolo era il volo radente delle rondini, il cinguettio dei passeri, il canto dei merli,d egli usignoli e di tantissime altre specie di uccelli sia stanziali che di passo quali folaghe, anatre, starne. Però la colonia più numerosa era quella dello storno “storlo” che qui trovava il suo regno. Se ne poteva contare a centinaia di  migliaia, la loro presenza rendeva il posto particolare. Inoltre per gli estimatori val la pena di ricordare i concerti melodiosi che si potevano sentire, specialmente al levare del sole. La parte dei solisti era sostenuta dagli usignoli e dai merli, tutti gli altri uccelli formavano il coro.  

Il lavoro della terra, la caccia e la pesca avvenivano in un paesaggio idilliaco ed era vantaggioso mantenerlo tale. Le piante che vi crescevano erano adoperate per vari usi. La canna palustre serviva per costruire le “arele” usate anche oggi per recinzioni, supporti per intonaci nei soffitti, per riparare le piantine dal sole negli orti e tanti altri usi. La paviera serviva per fare sporte e stuoie.           

Il carezzo “careto”, altra erba palustre, serviva per fare i “balzi”, specie di corde che servivano a legare le “faie”, i covoni di frumento, impagliare le sedie, coprire le “fiasche”.

I giunchi servivano anch’essi per fare sporte, canestri. I giunchi avevano una particolarità, la loro composizione spugnosa permetteva, legati in fasci di galleggiare. Tutti o quasi dalla mie parti fino al 1950, hanno imparato a nuotare con l’ausilio di questi galleggianti, opportunamente legati al dorso.

La zona era ricca anche di arbusti: “le sanguine”, chiamate così per i loro colore rosso sangue, che servivano per fare le “nasce”, trappole per il pesce e le “granà”, scope che si adoperavano nelle stalle e sulle aie per tenerle pulite.

I “stropari”, salici gialli, le cui frasche venivano adoperate per  fare cesti, “corghi” (contenitori per polli), legare in fasci le ramaglie (fascine), per legare i tralci ai pali che sostenevano le viti e, qualche volta, per lisciare la schiena a qualche impertinente, le cosiddette “stropazà”

Tutte queste piante erano dentro l’acqua o in prossimità. Per raccoglierle occorreva essere muniti di stivali di gomma oppure a piedi scalzi, barche e apposite falci, roncole o altre arnesi da taglio. La fatica era tanta, sempre inzuppati, vuoi per l’acqua che per il sudore, il ricavo scarso, ma la povera gente si accontentava. Spesso queste operazioni venivano accompagnate da canti  ed uno dei più famosi era “Sior paron dalle belle braghe bianche fora le palanche ca anden a cà”.

Oggi, 1 gennaio 2000, la riserva è sparita, la zona umida non esiste più, ci sembra di essere economicamente più ricchi, ma invece siamo molto più poveri, ci restano solo i ricordi di una piccola oasi perduta.

Molti nostri bambini non sanno come sono fatti certi animali che popolavano le nostre fattorie. E nello stesso tempo non hanno mai sentito il canto dei grilli, quello del “cuco” e il gracidare delle rane negli stagni. Mia madre mi diceva che il canto delle rane era il loro grido all’alleluia al Cristo risorto dopo Pasqua.

Amara considerazione: andando di questo passo, l’uomo farà della terra, dono di Dio, un deserto.

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