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Quando gli immigranti eravamo noi

Mi presento, sono uno di quelli che negli anni cinquanta è dovuto partire da un paesino del Polesine. In quei tempi si diceva che la provincia di Rovigo era il sud del nord, per certi versi lo è ancora.

Avevo sentito dire che nel triangolo Milano, Torino, Genova, si poteva trovare lavoro. Prima, nel 1951, l’alluvione, poi gli scioperi hanno aggiunto miseria a miseria.

Ero il settimo di otto figli, le condizioni della mia famiglia erano disastrose, si doveva vivere dei soldi del poco lavoro che mio padre e il fratello maggiore prendevano come lavoratori stagionali. I lavori ai quali ci si poteva affidare erano quelli agricoli, stagione permettendo.

Confortato dai miei genitori, a malincuore, decisi di andare a cercare fortuna. Loro mi dicevano:  “Se non ce la fai tu, che sei il più capace, nessuno di noi potrà farcela”.

Messi insieme i pochi indumenti decenti, i pochi articoli per la pulizia personale, un po’ di pane e una “brazadela”, fatta con amore dalla mia mamma, accuratamente infilati nella valigia di cartone legata con lo spago, mi accinsi a partire.

Dopo avere fatto il biglietti di terza classe, circondato dai famigliari prodighi di consigli, attesi il treno. Confesso che era la seconda volta che prendevo un treno, la prima era stata per andare  afare il militare a Persano, bassa Italia. Alla piccola stazione del mio paese il treno si fermava solo un attimo, per recuperare il ritardo endemico. Ultimi saluti e via. Dire che era un treno da terzo mondo è dire poco: faceva un fumo infernale, specialmente quando riprendeva la marcia. In terza classe i sedili erano di legno, la pulizia lasciava desiderare, specialmente nelle latrine, mi sono detto ”Incominciamo bene”. Questa lumaca non solo si fermava nelle stazioni grandi ma anche in quelle piccole. Si potevano vedere passeggeri di ogni sorta, maestri, impiegati, tante donne con le ceste piene di uova che si recavano al mercato. Ho notato di quelle che in apposite ceste di vimini avevano conigli, galline, cavoli. Con il caldo che faceva, eravamo alla fine di luglio, la puzza era nauseante. Per fortuna ad una fermata queste donne e i professionisti scesero, la calca si diradò e il treno riprese il suo lento viaggio. Arrivati a Verona scesi anch’io, presi la mia valigia e mi avviai verso il binario per prendere il treno per Milano-Torino. Altra sorpresa, l’altoparlante gracchiando annunciò che il treno proveniente da Venezia aveva cinquanta minuti di ritardo.

Rassegnato mi sedetti su una panchina, questa volta di marmo. Aveva il vantaggio che era fresca.

Mentre stavo asciugandomi il sudore, mi accinsi a mangiare un boccone. I morsi della fame incominciavano farsi sentire. Era da più di due giorni che non mangiavo, sia a causa di un’infiammazione alla gengive che non mi permetteva di masticare sia per la preoccupazione che mi dava la partenza. Per uno che ha poco più di venti anni la cosa era seria.

Mentre mi preparavo a mangiare, notai che in stazione entrava un corteo, con bandiere, tamburi, gridavano slogan: “Ferrovie di Stato, ci avete incastrato”, “Governo vigliacco, ce l’hai messa nel sacco”. Erano i partecipanti ad uno sciopero indetto dai ferrovieri. Il fracasso infernale e la ressa che ne seguì mi obbligarono a spostarmi. Maledizione, non l’avessi mai fatto. Quando tornai sui miei passi la mia misera valigia era sparita.

Quando Dio volle il treno entrò in stazione. La folla che scendeva malediceva per il ritardo e quella che voleva salire per trovare un posto a sedere, creava un caos infernale.

Fu in quel momento che mi sentii prendere per un braccio, era un donna molto robusta, che poteva essere mia sorella maggiore, si fece largo, con le belle e brutte maniere e mi fece salire solo in tempo per trovare due posti liberi, uno di fronte all’altro. Non  mi restò altro che ringraziala. Il treno riprese la sua marcia. Non che fosse tanto migliore del primo.

Nello scompartimento tutti badavano ai fatti loro, io pensavo alla mia povera valigia, alla “brazadela” che mi poteva sfamare. Il caldo torrido era mitigato dall’aria che entrava dai finestrini semi aperti. Le poche parole pronunciate dalla signora che mi aveva aiutato e che mi stava seduta di fronte, furono per chiedermi dove fossi diretto. Ricevuta la risposta, tutto tornò tranquillo. Tranquillo per modo di dire. Sia lo sferragliare che il fumo che entrava dai finestrini, la situazione tranquilla non era. Tra l’altro fui indotto a notare che la signora era tutta sudata e si contorceva dalla smania.

Quando ci si mette la iella non la smette più e, dopo uno scossone, il treno si fermò. Tutti ci chiedemmo cosa fosse successo. Il controllore a squarciagola sbraitava “Il treno ha investito un carrettino trainato da un asino, il contadino che si trovava sul coccio è rimasto ferito, chi vuole può scendere”.

Volentieri accettammo l’invito, il vagone era una bolgia, il tetto bruciava sotto il sole di quel pomeriggio di luglio.  Per ripararci dal caldo afoso ci sedemmo sotto ad un albero.

La buona signora mi confidò che era diretta a Torino dove l’aspettava un bambino di tre mesi. Lei faceva la balia di professione. Era una montanara, veniva da un paesino del Trentino.

Aveva avuto sette figli e l’ultimo l’aveva da poco svezzato. Oltre al latte per i suoi bambini, ne aveva a sufficienza per nutrirne anche un secondo e le altre mamme, che non potevano allattare i propri bambini, le affidavano i propri. Era conosciuta in tutta la zona. Naturalmente per le sue prestazioni era retribuita sia in danaro che in generi alimentari. Anche nella sua zona non si nuotava nell’abbondanza. Per ora erano stati sette bambini e sei figliocci e stava per raggiungere il settimo.  A questo proposito mi mostrò le foto dei figliocci prima e dopo che lei li allattasse. Dalle foto si poteva notare la differenza, prima gracili, poi paffuti.

Una sua conoscente, trasferitasi a Torino per lavoro, aveva raggiunto una certa agiatezza e le scrisse che il bambino che le era nato da poco se lo sarebbe allattato da se per i primi tre mesi. Ma per non perdere la linea chiedeva alla balia se lo poteva per favore continuare ad allattare. Ma c’era un’altra richiesta. Era necessario che la signora venisse a Torino per il tempo necessario. Sarebbe stata ospitata e ben retribuita. Dopo averci pensato per bene, in comune accordo col marito e i figli, accettò l’incarico.

Come ho già detto si poteva vedere che soffriva non solo per il caldo. Istintivamente sbottonò il corsetto, tutto ricamato. Si intravedevano i due turgidi seni. Capii che non essendo stati svuotati dal giorno prima le davano un enorme fastidio. Lei si torceva dallo spasimo, io dalla fame. Istintivamente mi disse “Figliolo vuoi mangiare”. Ci appartammo, si tolse il corsetto, mi si presentarono davanti due poppe, che per essere troppo piene, i capezzoli gocciolavano. Mi prese tra le braccia come un bambino, mi misi succhiare avidamente, prima quella desta poi quella sinistra, mi sentivo rinascere. Lei smise di sudare, io non sentivo più i morsi della fame.

Tutte e due tirammo un sospiro di sollievo, io per il pasto gratuito, lei per essersi liberata dal peso che la opprimeva. Una voce stridula cominciò a gridare: “In carrozza, si parte”.

Lei mi prese per mano, dicendomi: “Vieni figliuolo”. Ci sedemmo tutti al nostro posto. Il viaggio riprese, il treno non sembrava più quello di prima, tanto era comodo.

Lei scese a Torino, io proseguii per Ivrea, prima di scendere mi baciò in fonte, dicendomi:
 “Buona fortuna”. Io con le lacrime agli occhi, le disse: “Grazie mamma”.

A distanza di anni il rimpianto più grosso è quello di non averle chiesto l’indirizzo. Però il ricordo di quella avventura, quando ci penso, mi commuovo ancora.

Ora ho ottantenni e quando vedo certe donne con i seni al vento, mi imbarazzano. Ma in quel frangente il sesso non fece minimamente la sua comparsa.

L’augurio ebbe buon esito, trovai un buon lavoro. Mi sposai con una bella fanciulla che mi dette tre figli. Con il tempo mi raggiunsero i miei famigliari e ci sistemammo tutti, col rammarico che al vecchio paese le cose non sono ancora cambiate.

L’uomo del fiume

Come nella maggior parte dei paesi del Polesine le condizioni della popolazione erano precarie.

A poche famiglie benestanti e a un piccolo numero di medie condizioni, si contrapponevano una maggioranza di famiglie povere. Questa situazione cambiò a partire dagli anni cinquanta a causa della forte emigrazione che la popolazione di questi paesi dovette subire, per cercare lavoro e migliori condizioni di vita. Questo avvenne anche nella mia comunità, dal 1951 dopo la rotta del Po, al 1960 dimezzando la popolazione. E’ in questo contesto che si ambienta il mio racconto. A poca distanza da dove abitavo, si trovava un lungo caseggiato occupato da un certo numero di famiglie, le quali, per sopravvivere e per arrotondare i magri introiti provenienti da un po’ di terra di loro proprietà e dal salario per qualche periodo di lavoro prestato, “si industriavano” ed erano costretti nei ritagli di tempo libero a dedicarsi alla pesca.                          

Abitando sulle rive del fiume Tartaro veniva naturale dedicarsi a questa attività.

Di personaggi e episodi da raccontare ne avrei tanti, quello però che mi pare il più interessante è il personaggio che chiameremo per rispetto alla sua memoria, il pescatore, o meglio “l’uomo del fiume”. La sua famiglia era composta da quattro persone: papà, mamma, e due figli, un maschio e una femmina. Era una brava persona, almeno fino a quando il vino non gli annebbiava il cervello avendo il vizio del bere. Il vino lo produceva nel suo piccolo podere, era in prevalenza “bacò”, perché era la prima uva che veniva a maturazione e “clinton”uva che dava un vino saporito e corposo.

Il fenomeno era di poca durata perché le scorte si esaurivano in poco tempo. Ma essendo fine estate, inizio autunno, uno dei periodi più propizi per la pesca, non vi era giorno che il nostro amico salisse in barca più o meno alticcio. Come si può capire, se uno prende la “balla” e poi va a letto poco male, ma andare in barca è pericoloso. Lo si vedeva barcollare, ma nessuno lo ha mai visto cadere in acqua. Il nostro amico passava diverse ore in barca, non per niente lo chiamo il “pescatore”

Di questo mestiere conosceva tutti i segreti; dai tratti più pescosi ai modi più idonei per avere buoni risultati: solo in rarissimi casi tornava a casa con le ceste vuote. Si costruiva da solo gli attrezzi del mestiere con una tale abilità e maestria da fare meraviglia.

Nelle varie ore del giorno lo potevi vedere condurre la sua barca nei punti stabiliti per posizionare i “reun” e le “nasce”che gli permettevano di fare pescate abbondanti.

Nel pomeriggio inoltrato, fino a sera, collocava le “arti”. Da notare che aveva un sistema tutto suo per rintracciare le “arti” e per non farle scoprire da eventuali furbastri. Un giorno alla mia domanda come si regolasse mi disse “caro al me curioso a ne poso dirtlo, ma a te devi savere ca no mai perso gnanca un cordin”.

Alle prime luci dell’alba, come in un rito, allacciato il grembiule di tela cerata e sistemata l’attrezzatura partiva a ispezionare e ricuperare l’eventuale bottino.

Come tutti gli artisti, non infieriva mai contro le prede, ma con delicatezza estraeva dalle reti il pesce e poi lo deponeva nell’apposito vano che si trovava tra prua e poppa della barca, sotto il tavolato, provvisto di una quantità d’acqua sufficiente perché il pescato sopravvivesse.

Una volta tornato a riva prelevava il pesce e lo metteva nel “burcio”, un contenitore immerso nell’acqua e lì rimaneva fino a quando qualche cliente o rivenditore ne faceva richiesta.  

Quante volte mia mamma mi ha comandato “Va dal pescatore a prendere il pesce, lui sa quale deve darti”, naturalmente il migliore. Il rito si ripeteva ogni venerdì e nei giorni di “vigilia” ovvero i giorni comandati di mangiare di magro.  Era un mangiare di magro da leccarsi i baffi.

Un curioso come me cosa poteva fare? Interrogarlo, fargli delle domande sul suo passato, lui mi rispondeva sempre cordialmente, escluso alle domande che guardavano i segreti del suo mestiere. Il ritratto che ne veniva fuori era quello di un uomo dotato di una discreta intelligenza, che aveva tanto sofferto, prima, durante la guerra del 15-18, poi per le difficoltà economiche e incomprensioni in famiglia, dovute al suo carattere forte. Tutto questo lo ha portato a cercare conforto nel bere.  Mi diceva “so che il vin le la me ruina ma a ne posso far de  manco”.

I consigli per quanto buoni non servivano a niente.

Col passare del tempo, con la diminuzione delle forze la situazione peggiorava di giorno in giorno.

I figli si sposarono, rimase vedovo e poi il colpo finale, i lavori per rendere navigabile il fiume distrussero il suo Tartaro. Da fiume pieno di vita lo trasformarono in cloaca, la sua acqua da pulita e bevibile divenne torbida e putrida. Senza più nessun scopo, finì i suoi ultimi anni nell’abbandono più assoluto. Se la sua casa prima era povera ma pulita, poi e diventata una topaia, non voleva vedere più nessuno. Questo è il destino dei poveri cristi. Lo avrete capito che questo personaggio lo ricordo volentieri: prima perché fa parte della mia giovinezza e poi per il rammarico di non aver potuto fare niente per aiutarlo. Quante di queste persone si riducono così per colpa della miseria, del disagio e dell’abbandono da parte della società cosiddetta “per bene”? Una cosa è sicura, per me e per chi lo ha conosciuto, resterà per sempre “L’uomo del fiume”.