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Nascita di un figlio

Era una grigia domenica di novembre, in quei giorni scadeva il termine della gravidanza di mia moglie.
Se il rispetto per lei è sempre stato alto, in questo momento ha raggiunto il massimo.
Spinto da un’attenzione nuova, spiavo ogni suo cambiamento.
Non mi è voluto tanto, vedendola  preoccupata e bianca in viso, (lei sempre di un colorito roseo) capire che il momento  tanto sperato era venuto.
E’ bastato un cenno per fare partire tutte le operazioni necessarie.
La valigia era pronta, nonostante tutto chi non era pronto ero io, o meglio non immaginavo che una notizia così mi procurasse un certo scombussolamento.
Riavutomi mi incoraggiai dicendomi:”Vedrai, tutto andrà bene, via si parte”.
Raccolsi  tutte le mie forze sia mentali che fisiche e mi misi all’opera.
Rintracciai il Medico di famiglia avvisandolo della situazione, lui essendo in quel momento
in visita d’urgenza mi consigliò di portare la futura mamma all’Ospedale, e lui si sarebbe attivato nel sbrigare le pratiche necessari per il ricovero.
Un mio amico premurosamente si mise a disposizione con la sua auto, (in quei tempi non se ne vedevano tante in giro).
A nostro arrivo trovammo il personale infermieristico che ci attendeva,
(avvisati dal nostro Medico).
Allora le cose andavano così, oggi, di domenica è meglio non ammalarsi.
Da questo momento incominciò l’attesa.
Rassicurato che tutto andava bene, non restava che aspettare.
Dicono ed io confermo, che in questi momenti sente le doglie anche il padre.
Come si può capire per questo lasso di tempo il mio ricordo è confuso.
Lei mi pareva, serena e fiduciosa a letto, io teso, camminavo su e giù per il corridoio.
E’ mezzanotte e la futura mamma è portata in sala parto, passano pochi minuti,
un vagito, una voce: “E PADRE DI UN BEL MASCHIETTO”.
La tensione si sciolse, non sapevo se piangere se ridere dalla contentezza; rassicurato che
madre e figlio stavano bene, ebbi una strana sensazione di leggerezza, era finito un incubo.
Guardai un calendario: era il 30 novembre 1964, giorno dedicato a S. Luca.
Ripresomi, ringraziai e pregai il buon Dio, ringraziai il Dottore, la Levatrice, e gli infermieri, ma un ringraziamento grosso, grosso lo fatto a mia moglie per il regalo che mi ha fatto baciandola in fronte.
Uscii all’aperto e notai  che il cielo era stellato e mi dissi: “Vedi anche la natura fa festa  con me”.
In quel momento non sentivo né caldo ne freddo, né sonno, né fatica, e mi resi conto che queste sono le vere gioie che riserva la vita…

A Gino

Eri poco più di un bambino,
quando un incidente ti ha segnato il distino.
Hai incontrato un gruppo di scolari in quella curva dannata,
per loro era una allegra passeggiata.
Nel gruppo regnava tanta confusione,
e tu hai voluto evitar la collisione.
Sbandando sei finito su quel palaccio,
e la spalla si è separata dal tuo braccio.
Tu eri solo, stordito e mezzo morto,
senza testimoni e tutto tuo è diventato il torto.
Non si sa se per imperizia o la fretta del momento,
l’operazione è stata un grosso fallimento.
Per tutta la tua vita, forse era destino,
è stata segnata da quel braccio moncherino.
Si può pensare alla luce dei fatti,
che i poveri vengano sempre umiliati.
Se la tua famiglia fosse stata ricca e colta,
il risultato avrebbe preso un’altra svolta.
L’esperienza purtroppo  l’insegna,
il povero al dolore si rassegna.
Per le umiliazioni e il male che hai sofferto,
la giustizia Divina ne terra conto, puoi stare certo.
Mentre la società a queste cose è indifferente,
e non vede quella parte, di essa sofferente.
Facevano finta di non vedere il tuo stato,
purtroppo questo ti ha ferito e umiliato.
Solo adesso che sei arrivato alla fine della vita,
si è convinta di quanto grave era la tua ferita.
E dice: “Che amaro è stato per lui il destino”,
e ti salutano per la prima, e ultima volta,  amico Gino.

Per Giacomo

Per merito di mamma e papà, guardate che bello,
sembro un angioletto sceso dal cielo.
Io sono il nonno lo vedo così e non mi sbaglio
è proprio vero non è un abbaglio.
Sarai coccolato da tutti i parenti
e io ti dico che devi stare attenti.
Sei venuto in mondo pericoloso, anche se civilizzato
però stai in guardia e stai preparato.
Anche in passeggino andare per la strada è un tuo diritto,
devi stare attento potresti essere investito.
Fin dall’asilo e scuola elementare,
per stare a galla devi darti da fare.
Più avanti alle medie, al liceo, all’università l’ambizione la farà da padrona,
troverai gente mediocre che mira solo alla poltrona.
A questa età sarai messo alla prova,
sentirai parlare di usura, pedofilia e di droga
Troverai amichetti neri, gialli o di altro colore
tu devi amarli perché anche loro hanno lo stesso Creatore.
Tra popoli e razze noterai il divario, questo è un fatto,
sii comprensivo e aiuta il tuo amico emigrato.
Accetta i miei consigli come una cosa gradita,
e ti renderà più semplice e felice la vita.
Pericoli ne troverai in ogni momento
potrai superarli solo stando attento.
Non ti scoraggiare a navigare sarai aiutato
da mamma e papà e da tuo nonno un po matto.
Una cosa essenziale tu devi imparare attentamente,
di comportarti sempre onestamente.
I soldi e gli onori sono cosa gradita,
però un valore inestimabile è avere la coscienza pulita.
Con le tu sole forze non riuscirai, te lo dico io,
ti consiglio di chiedere aiuto soprattutto al buon Dio.
Avete capito, questi consigli sono per Giacomo il nostro tesoro
non deluderci e fa della tua vita un capolavoro.

Con affetto il nonno Guido
Trecenta 21 Luglio 2002

Cinque ragazzi ed uno scettico

Quando leggerete questo titolo vi chiederete del suo significato. I cinque ragazzi erano compagni di scuola e di scorribande serali. Lo scettico ero io ed eravamo capitati a raccogliere la frutta nell’azienda agricola Val di Fiocco a Zelo. Fin qui nulla di male, il problema nasce a stare insieme: il direttore dei lavori non filava bene con i giovani e quando li ha visti a deciso di appiopparmeli: eravamo organizzati in due carri “raccogli frutta” , uno con la squadra descritta sopra e l’altro con personale adulto e teoricamente più affidabile.
Confesso che il mio primo giudizio è stato una tacita esclamazione: “Sono conciato per le feste!”.
A mio favore avevo la fiducia espressami dal proprietario, la giovane età dei ragazzi ed il fatto che non mi è mai piaciuto fallire. Ovviamente l’altra squadra era in attesa del nostro o del mio fallimento disastroso.
Ma ora facciamo conoscenza dei sei: cinque maschi ed una gentile signorina con qualche anno più di loro: Michele, Simone, Marco, Paolo, Fabrizio ed Annalisa. Cinque erano diplomati ed uno era studente universitario, e questo era un punto a mio favore, era più facile farmi capire.
Michele era il più estroverso, carattere esuberante e generoso, col pallino per la vita militare: lo si vedeva dal modo di vestire, indumenti mimetici, borraccia e berretto e anche dai discorsi che faceva. Il suo amico inseparabile, Marco, era molto equilibrato, e proprio perché era così si capisce come potevano andare d’accordo. Arrivavano sul posto di lavoro insieme su una Cinquecento rossa, rappezzata ed alquanto sgangherata.
Simone li sovrasta in altezza e saggezza, era il mio gioiello, figlio di un mio amico, era il più disponibile ad eseguire gli ordini.
Paolo l’intellettuale di turno, fisicamente meno dotato ma con tanta buona volontà. Ed in più i suoi discorsi davano spessore alle conversazioni. 
Fabrizio ultimo dei cinque, l’unico che avrebbe potuto lavorare nell’azienda di famiglia, preferiva venire a lavorare con gli amici. Era lento, ma diceva di essere sempre tutto accelerato.
Ciliegina della torta, Annalisa, la nostra maestrina, la cui femminilità dava gentilezza alla compagnia.
Alla guida del carro c’era Lucio che spesso si appisolava e fraintendeva gli ordini: quando doveva andare avanti si fermava e viceversa ed era bersaglio di scherzi e frizzi.
Questo era il materiale umano che avevo a disposizione ed occorreva farlo funzionale. Per esperienza sapevo che fare amicizia avrebbe dovuto dare buoni frutti. Mai dare ordini autoritari, chiedere sempre “per piacere”, non rimarcare gli sbagli se non per correggerli, sorvolare su qualche ragazzata, ma mai farsi mancare di rispetto. 
Nel giro di due giorni tutto funzionava alla perfezione. Lavoravamo, sudavamo, scherzavamo, ma non mollavamo. Si era formato un gruppo ben affiatato che si rispettava e destava l’invidia dell’altra squadra. Il mio scetticismo verso questi giovani era sparito. La giornata era di otto ore con pausa a mezzogiorno, e sia al mattino che alla ripresa pomeridiana era una festa di allegria e voglia di ritrovarsi. Il lavoro consisteva nel raccogliere la frutta, selezionarla, metterla nelle casse e, raggiunto il numero sufficiente, formare una “pedana”. Tutti a turno sapevano fare questo compito ma la più brava era Annalisa, la più rispettata in tutti i sensi, e tengo a sottolineare “rispettata” anche se a sentirli parlare parevano tutti dei “sciupa-femmine”. Si arrivava a sera stanchi, ma allegri. Durante il lavoro si parlava, si scherzava, senza mai fermare le mani.
I ragazzi avevano tutti frequentato la stessa scuola e avevano avuto gli stessi professori. Li sentivi parlare di come prendevano in giro il professore ex-sessantottino, dicendo “piccì” ogni volta che starnutivano. Oppure di come uno di loro, imitando perfettamente la voce di un altro professore, faceva scattare gli studenti più giovani. Si facevano anche discorsi più seri oppure ci si raccontava qualche barzelletta, anche un po’ spinta ma per questo più saporita.
Il nostro motto era lavorare e rendere senza annoiarsi. E dimenticavo di dirvi che quello che era di uno, era di tutti, i scambiavamo merende e bevande. 
Da queste conversazioni ne sono uscito più ricco anch’io, ho aggiornato i gusti musicali e letterari ed ho conosciuto i vizi e le virtù del mondo dei giovani. Una bella esperienza che difficilmente dimenticherò.
E come sempre, tutto è destinato a finire, e negli ultimi giorni l’aria si era fatta pesante, ma nessuno lo ammetteva. Arriva il momento di salutarci, i soliti ringraziamenti, le promesse di ricontrarsi, consapevole però che la vita ha il suo corso e le strade si dividono.
Ma ecco al chicca finale. I sei si appartano dal grosso della compagnia e con un cenno mi invitano ad aggregarmi. L’intellettuale, come chiamavamo Paolo, estrae da sotto il giubbotto un libro ed insieme me lo consegnanoin segno di riconoscenza per averli trattati da adulti. E lo meritavano, eccome lo meritavano…
Ancora oggi a distanza di dieci anni, il gesto mi commuove come allora. Ricordo le sole parole che sono stato in grado di pronunciare: “Via auguro che la vita vi riservi ogni bene.”
In dieci anni sono accadute molte cose. Michele ha subito un grave incidente, durante un lancio il paracadute non si è aperto correttamente e gli ha procurato gravissime lesioni, tanto che si è temuto che rimanesse paralizzato. Ma grazie alla sua forza d’animo e alla sua tenacia, per fortuna gli è andata bene. Ora lavora in Russia. Tra le sue qualità, c’era l’amore dell’avventura e lo dimostra col lavoro che ha scelto.
Simone si è sposato e lavora in provincia di Verona.
Annarita si era recata in Germania per lavoro, a vendere gelati, e lì ha trovato l’amore e si è sposata e vive felicemente, spero. 
Marco, per quel che so, è fidanzato e lavora in provincia di Padova. Degli altri ho perso le tracce, ma sicuramente si sono sistemati bene, è quello che spero.
Ancora oggi, quando incontro qualcuno di loro è una festa.

Giacomo

Saluto i miei amici bambini ancora angioletti,
e per nove mesi ognuno nel grembo siamo restati stretti.
Ho detto oggi nasco, e vado in una serra tutta fiorita,
entro nel mondo, incomincia la vita.
Il primo vagito in mezzo al trambusto e al rumore,
non so se fosse di gioia o di dolore.
Il primo volto che ho visto è stato quella della mammina
Se ti ho fatto soffrire, scusami, ti saluto con la manina.
Non meno importante è stato il viso secondo,
è del babbo che ringrazio di avermi fatto venire al mondo.
So che vi farò perdere qualche ora di sonno e la pazienza,
consolatevi, perché sono un dono della provvidenza.
Quattro i nonni che ho fatto contenti,
oltre agli zii, amici e parenti.
Nonna Luciana e nonna Angelina volano alto, questo va detto,
non si stancano di lodarmi, sono il loro pargoletto.
Altrettanto contenti sono i nonni Guido e Giovanni,
si vede, anche loro non stanno nei panni.
Scusate, ancora non mi sono presentato
mi chiamo Giacomo e sono appena arrivato
Così coccolato, forse vi procuro dei guai,
spero però di non deludervi mai.
Per il vostro affetto e amore,
con tutto me stesso vi ringrazio di cuore.
Non stupitevi se ragiono così appena nato,
mi ha aiutato il nonno, che benevolmente è un po’ matto.

La me maestra

Se sono il poco che sono lo devo a questa splendida persona.

Alle geme par sbociar e fiorir a ghe vole luce e calor,
alla mente dun putin par svilupar a ghe vol un bon educator.
Sa tlo cati, tutto va ben a te si fortunà,
sa ne tlo cati par tutta la vita a te sirè condizionà.
L’intelligenza lè un dono de natura,
se pò a tla coltivi la te sirà utile par la vita futura.
A mi la sorte la ma riservà na intelligenza normale,
ma par fortuna ò catà na maestra eccezionale.
Questo sintende par la me educazion .
prima de ela ricordo solo i miei genitori, questo le fora discusion.
Per questo è una delle persone ca ricrdo di più,
parchè la ghea pochi difetti e tante virtù.
La me maestra la iera capace, generosa,la iera na educatrice vera,
forse anca questa la iera na dote: era severa.
A ghe dasea fatidio le fandonie  e i piagnistei,
la ne vardava in faccia sa ierino brutti o bei.
Gnente difarenze, a ierino tutti alla pari,
la volea essar scoltà, ma la ghea pazienza in specie coi sumari.
Uno di bei ricordi le; quando in tle ore de ricreazion,
la istruiva “i puareti de schei”par l’esame de amision.
Par essare accetà alle” scuole medie”a se dovea superare un esame,
come se pol capire questo a iera più fazile par i siori, no par chi ca ghea fame.
Chi ghea i schei i andasea a prepararse in privà,
iveze al fiolo dal puareto al iera  bello spacià.
Quando tocava l’ora de religion,
in te cle  altre classi a te sentivi bacan e confusion.
Le insegnanti le lasava al prete in balia de alunni indisiplinà, 
e se pol capir al risultato de stà  zente svoià.
La me maestra, la ne se movea dal so posto e la controllava, 
ca stessino attenti elle spiegazion e in questo modo a se imparava.
A posso dire che catar na maetra cusi le stà na benidizion,
e ben la sa merità l’onorificenza de Cavalier dell’ Istruzion.
Al so ricordo a glo in tal cuor anca sa ne son più ragazzo,
la me maestra la se ciamava Annetta Cortelazzo.  

Gli aquilotti

Quello era vero tifo, era entusiasmo per la propria squadra, era divertimento

Una guerra terribile era finita,
si respirava aria nuova, rifioriva la vita.
La mia comunità si svegliò di botto,
correvano gli anni mille novecento e quarant’otto.
Si stentava a credere che fosse tornata la democrazia,
dopo un quarto di secolo di dittatura spazzata via.
In ogni campo tutto era da rifare,
anche in parrocchia, l’aria doveva cambiare.
La sorte ci ha dato una mano, quando,
come cappellano ha fatto arrivare Don Armando.
Prete dinamico con tante idee in capo,
ed in pochi anni la comunità ha rinnovato.
Per noi giovani è stata una manna venuta dal cielo,
tanto che ancora oggi si apprezza il suo zelo.
La sua attività la divideva fra Chiesa e Oratorio,
di iniziative ne ha sfornato un emporio.
Ricordo la sua idea, promossa a pieni voti,
di costituire la squadra giovanile di calcio “GLI  AQUILOTTI”.
Chi aveva talento calcistico all’opera venne chiamato,
tutti gli altri in vari modi il loro aiuto hanno dato.
Si partiva con mezzi di fortuna, camioncini sgangherati,
sembravamo un piccolo esercito, pacifico, dal Don, comandati.
Sui campi caldi, in gergo calcistico s’intende: Ficarolo,
Calto, Gaiba Stienta, e Bagnolo.
A squarciagola un inno inventato lì per lì si cantava,
in qualsiasi posto la squadra si recava: 
“Oio, oio ,oio minerale, 
per batter gli AQUILOTTI ghe vuol la nazionale”.
Oggi un suo fedele collaboratore,
è tornato alla casa del Signore,
e perciò, dei componenti, per non fare torto a qualcuno,
mi limito a nominarne un pochi, e per primo l’amico Bruno.
Quindi il mitico “Giagi, il portierone,  
 poi Giovannino, Virgiglio, Vittorino e l’immancabile Gastone.
Mi fermo, anche perché la formazioni è passata alla storia,
e non vorrei essere tradito dalla mia memoria.
Una parte di questi amici sono passati a miglior vita,
e per loro la riconoscenza è infinita.
Don Armando ti preghiamo, sicuri di avere in cielo un protettore,
ora che con i nostri amici sei nella casa del Signore. 
 

A Giovannino

Signori si nasce e si lasca un bel ricordo

Ammirando queste vette, sarà l'emozione,
non posso nascondere la mia commozione.
Il mio pensiero se ne va a quando ero bambino,
e a quell'amico mio, Grisetti Giovannino.
Io figlio di contadini, ancora oggi gli rendo onore,
mai mi ha fatto pesare che lui era figlio del Professore.
Era gentile e non alzava la voce, sempre educato, 
e di questo suo modo di vivere, ci ha gratificato.
Mi rammento di una grossa nevicata,
mi prestò i suoi sci e io giù per la scarpata.
Ancora oggi  lo ricordo con la sua risata intelligente,
disse: “Ti sei fatto male, la rottura degli sci non conta niente".
All'oratorio le ore passavamo giocando,
il nostro maestro era Don Armando.
Quanti giochi: il Grest o le Olimpiadi Trecentane,
se andava bene gli procuravamo un sacco di grane.
Quando rivedo le foto di quei tempi lontani, 
il mio ricordo va agli amici ma soprattutto a Giovanni.
Questo il suo nome, e avendolo conosciuto fin da bambino,
per noi amici era e sarà sempre Giovannino.     
Le strade si son divise ad una certa età,
io nei campi, lui all'Università.
Lo dico con orgoglio e cuore sereno,
però l'amicizia non è mai venuta meno.
La meta che aspirava era una laurea in medicina,
invece una triste notizia arriva una mattina.
Un lampo, un tuono; un dei momenti infernali,
con un sol colpo le ha tarpato le ali.
“Tu sei in cielo io son qua giù, 
però la nostra amicizia non finirà mai più.”

dopo la visita al bivacco.......  
   
Bivacco Grisetti sotto il Moiazza (Copyright http://www.ormeverticali.it/relazioni/moiazza-nord/)

Morire a vent’anni

A ricordo di suo zio Amedeo, morto in Grecia, nel 1943.

Avevo vent’anni, non mi ero mai allontanato da casa.
Arriva una cartolina, devi partire per il militare,
dove servirai la patria.
Di questa parola “Patria” ne avevo sentito parlare a scuola.
Me ne parlò mio padre, lui l’aveva servita nella guerra 1915-18.
Mi hanno sempre fatto paura le parole sacrificio ed eroismo.
Arrivato a destinazione fui stordito dalle parole:
“Dovere, disciplina, fedeltà, servizio”.
Ancora inesperto e poco addestrato,
fui trasferito in Grecia, al fronte,
l’impatto fu terribile, un inferno.
Una notte scura e fredda, rischiarata solo dai bagliori delle fucilate.
Il nemico era invisibile avvolto dal buio.
Una voce imperiosa gridava:
“Avanti, avanti, deve essere una sorpresa”.
Fui colpito in pieno petto,
un forte dolore invase il mio corpo.
Una macchia rossa inondò il mio panciotto.
Caddi nel fango gridando disperatamente:
“Mamma, papà, Dio, dove siete? Aiutatemi, 
Patria, fratelli, almeno ricordatemi”. 
Poi il silenzio.
 

Si va dal nonno

Avevo imparato da poco ad andare in bicicletta ed un sasso traditore mi fece volare atterrando sui ciottoli. Povere ginocchia! Ma io feci finta di niente perché il giorno prima mia mamma aveva detto che domenica si sarebbe andato a trovare il nonno.

Non potevo perdere un’occasione simile. La distanza non era tanta, ma la strada era pessima. Il nonno abitava a Felonica Po un paese del basso mantovano.

Quel giorno mi alzai di buon mattino, colazione leggera e su in sella. Dopo le prime pedalate le ginocchia iniziarono a farmi male, anche se io cercavo di ignorarle. Hai che dolore! Ogni scossone una fitta.

La mamma premurosa chiedeva: “Come vanno le ginocchia?”. Ed io rispondevo “Bene, bene Mamma”. Che bugia!

Per arrivare alla meta si doveva transitare per il paese di Calto, al posto che tutti chiamavano il “porto”. Lì si doveva attraversare il fiume Po su appositi battelli o sul traghetto.

Poco prima di arrivare, come le altre volte, mia mamma si metteva gridare ad alta voce “Ooooh, ooooh”. Era il segnale per avvisare i traghettatori che se non fossero ancora patiti di aspettare i nuovi clienti.

Dopo la salita faticosa, si arrivava sull’argine ed ecco una visione stupenda. Il re dei fiumi d’Italia, il Po, docile se il corso era tranquillo, tremendo se in piena.

Una volta sistemato a bordo, la mia fantasia si poté sbizzarrire. Mi venne in mente Caronte, il traghettatore di anime di cui la mia maestra aveva da poco parlato a scuola, o Fetonte, il dio che precipitò nel fiume Eridano con il carro del sole e i cavalli imbizzarriti.

Nel frattempo il traghetto attraccava alla sponda mantovana. Salendo sull’argine mi si presentava Felonica Po, appollaiata vicino all’argine.

Mia mamma salutava alcuni parenti che abitavano lì vicino e, dopo gli ultimi due chilometri di strada, si arrivava alla fattoria del nonno  chiamata “Al pradon”.

Baci e abbracci. Ma le ginocchia facevano male e tutti mi chiedevano come era successo. Il clima cambiava quando le mie zie premurose mi invitarono a sedere con davanti pane e abbondante formaggio grana, quello buono. Guardando tanta “grazia di dio” mi veniva voglia di incartarne alcuni pezzi per i giorni seguenti. Non se ne vedeva a casa mia, dove non si pativa la fame, ma non c’era tanta abbondanza.           

Il chiacchiericcio cessava quando compariva sulla porta il nonno, uomo austero, di poche parole, ma di una grande bontà. Portava i segni di una una vita dura e sofferta. Era rimasto vedovo a quarant’anni con sette figli.

Ricordo di quella volta che gli portammo la notizia che era diventato bisnonno e gli domandammo come si sentisse in tale veste. Ci rispose: “Diventare bisnonni è come diventare Papa. Restano pochi anno da vivere.”

Al suo arrivo, salutava la figlia, che era la più anziana dei sette fratelli e mi accarezzava i capelli (allora ne avevo tanti) dicendomi: “Come stai piccolino?”. Io ero il più giovane dei nipoti.

Mia mamma non finiva mai di parlare con le cognate ed io di giocare con i cugini.  Ma a tardo pomeriggio si doveva tornava a casa e quella volta, dovevo affrontare di nuovo il tormento alle ginocchia. Ma quanta felicità.