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Uovo esplosivo, un militare per amico

Sotto al grande albero, riparato dal sole e dagli occhi indiscreti si trovava un grosso carro armato tedesco. Il gigante d’acciaio con la sua mole e il suo equipaggiamento bellico contrastava con la scena pacifica e serena che lo attorniava, polli che razzolavano, oche e anatre che nuotavano nel piccolo stagno che si trovava vicino al pozzo.

C’erano perfino una capretta con suoi due gemellini. Queste bestiole erano i compagni di gioco di Giacomo, bimbo di quattro anni, sveglio e curioso. Quel mattino, ancora con gli occhi assonnati, corse alla finestra della sua stanzetta per salutare i suoi amici animali e come vide quel bestione di ferro rimase sorpreso e chiese alla mamma cosa fosse e quando fosse arrivato; la mamma subito rispose alla sua domanda: “Come vedi Giacomo, quello è un grosso motore arrivato questa notte mentre tu dormivi”. Al  bambino, quando sentiva parlare di trattori che erano la sua passione gli si illuminavano gli occhi e di corsa, scalzo, (eravamo d’estate) volle vederlo da vicino. Giunto a pochi passi dall’oggetto della sua curiosità, fu fermato da un militare tedesco, il bimbo senza perdersi d’animo chiese “E tuo questo motoe, lo posso vedee”.

Il militare un uomo di trent’anni che parlava bene l’italiano perché da giovane aveva studiato a Roma gli rispose:” Vedi bel bambino io sono il responsabile di questo motoe (come dici tu) e nessuno si può avvicinare se non in mia presenza”.

Giacomo accettò il patto e in poche ore diventarono amici. Il bimbo faceva domande, e il suo amico rispondeva, anche perché gli sembrava di parlare con suo figlio nato poco dopo che era partito per la guerra e non l’aveva mai visto se non in fotografia.
Il momento più emozionante arrivò quando, aiutato dal suo amico, salì sul mezzo. E giù domande “ che cos’è queto, e quello”, e il soldato con bella maniera e pazienza a rispondere, fino a che gli occhi del bimbo si fissarono su  degli oggetti strani messi in ordine  sopra ad un’apposita mensola inaccessibile ad un bambino. erano bombe a mano. “Che cosa sono quelli”.
L’amico per non impressionarlo rispose “ Sono le uova del carro armato”.
Giacomo avuta la risposta rimase in silenzio perplesso, finita la ricognizione si salutarono, ciao Giacomo; “ciao militae”.
Il giorno dopo Franz (mi ero dimenticato di dirvelo questo era il nome del militare) riordinando le sue cose si accorse che qualcuno era salito sul carro; lì per lì non diede molta importanza al fatto; invece fu preso dal terrore quando si accorse, dopo averle contate più volte, che mancava una bomba a mano. Chi l’aveva presa  aveva l’accortezza di spostare le altre in modo di non fare scoprire subito il furto. Accortosi del fatto, il militare rimase come paralizzato: come giustificare il furto presso i suoi superiori dato che era lui il responsabile di ciò che aveva in dotazione? Chi poteva essere salito senza che lui lo vedesse, e come aveva fatto tenendo presente che in sua assenza il mezzo era sempre chiuso a chiave: un bel rompicapo!

Decise di indagare in modo riservato senza dare nell’occhio per non aggravare la situazione.
Dopo avere scartato tutte le ipotesi più o meno realistiche, si concentrò su quella che riteneva la più  probabile. Come folgorato da questa idea si mise a cercare la padrona di casa, la trovò nell’orto che stava raccogliendo i pomodori.

Quando la donna vide che il militare veniva verso di lei fu presa da un certo imbarazzo; quando il militare le fu vicino accortosi che la donna era diventata tutta rossa in viso la rassicurò dicendo in un buon italiano: “Mi scusi signora, non abbia paura vorrei solo chiederle se ha delle galline che covano”. La donna sorpresa da questa domanda rispose: “A ghea na cioca tardiva ma la ma abbandona al nido, al sa con sto caldo, e la ma fatto andare a ramengo tutti i ovi, però la ne vol discoarse le sempre in nido”.  “Può farmela vedere?” “Come al vole sior”; e scorlando la testa la se disea dentro de ela questo le mato”, e lo condusse nel pollaio. “Adesso può farmi vedere quante uova sta covando?”

La donna sempre più sbalordita: ”Come al vole sior ma come go dito ie tutti lendegari( andati a male) “. La donna sollevò la chioccia delicatamente e con sorpresa vide che in mezzo alle uova bianche ve n’era una nera: era la bomba. Al vedere ciò, si mise le mani nei capelli gridando :”Madonna mia!” Il militare la rassicurò:” Signora non è niente”, e delicatamente raccolse la bomba per non creare guai seri.

A poca distanza dalla scena si trovava Giacomo che uscendo da suo nascondiglio corse singhiozzando fra le braccia della mamma gridando:” Mamma, mamma il militare mi aveva detto che quello era un uovo di carro armato e io l’ho messo sotto la ciocca, perché ne volevo uno piccolo tutto per me”. Vedendo tutto ciò il militare accarezzò Giacomo pronunciando queste parole: “La colpa è tutta mia, d’ora in poi chiamerò con il loro nome tutte le cose; ma dimmi quando l’hai  presa? “Quando ieri ti ho detto che avevo fame e tu sei andato a prendermi una galletta (pane militare).

A questo punto Franz con una certa severità apostrofò Giacomo: “Impara a non mettere le mani su cose che non conosci; questa volta è andata bene ma poteva succedere una disgrazia”.
La mamma stringendo amorevolmente il bimbo al seno:” Eto capio”, e come risposta: “Si mamma”.
Morale, noi adulti dobbiamo capire che ai bambini si deve dire sempre la verità per non correre il rischio di fatti incresciosi.

pubblicato su Experientia 20° Anno accademico 2005-2006

Il Francese

L’esperienza c’insegna che in tutti i confitti e guerre, i furbi, quelli che tirano i fili, di solito restano a galla, sia che vincano, sia che perdano! Se vincono, sono decorati e osannati, se perdono, si nascondono per il tempo necessario ad organizzarsi e in seguito rientrare in gioco, riciclati. Chi subisce le conseguenze è l’idealista, quello che crede e combatte per una battaglia ideale, che lui crede giusta anche se è sbagliata.
Però, sia che vinca, sia che perda, torna ad essere un numero, un nulla.
Le varie repubbliche lo insegnano; la prima, la seconda, se ci sarà, anche la terza. Le repubbliche passano ma chi tira i fili restano sempre quelli. Ciò serve per capire il fatto che sto per raccontare.
Anche noi bambini di sei, sette anni avvertivamo un’aria nuova e, come usciti da un incubo, giocavamo con spirito nuovo. Poteva essere il 26 o 27 aprile 1945 e da poche ore era finita la seconda guerra mondiale (per noi italiani, mentre in Giappone finì in agosto di quell’anno).
Il gioco che andava per la maggiore era il nascondino(chi non l’ha giocato)?
Nell’euforia del gioco ci accorgemmo, a poca distanza da casa nostra, della presenza di un uomo a noi sconosciuto, che stava seduto in riva ad un fossato, all’ombra di un boschetto d’acacie in fiore. Aveva la barba lunga ed era pallido e impaurito.
S’intuiva che, alla macchia com’era, doveva essere digiuno da qualche giorno.
Quando ci ebbe visti, tirò un sospiro di sollievo, aveva paura degli adulti non dei bambini.
Bastò guardarlo negli occhi per capire che non ci avrebbe fatto del male.
Con accento francese chiese del pane e da bere, in un baleno entusiasti d’essergli utili, gli procurammo pane, formaggio e acqua, erano tempi magri ma per chi ha fame non fa differenza.
Si mise a mangiare con avidità. Quello che ci colpi era il suo atteggiamento, si guardava sempre attorno, era impaurito, sembrava aspettasse qualcuno.
Fu in questo momento che dalla strada vicina sbucò un ometto insignificante, che con piglio arrogante portava un fucile a tracolla più grande di lui, tanto che gli batteva sui garretti e una pistola in mano, senza perdere tempo ordinò al francese di alzarsi e di seguirlo.
Dalla paura il povero uomo, l’ultimo boccone le andò di traverso.
La scena si presentava a dir poco, triste. Il nostro amico con la sua figura alta e robusta camminava davanti, il nanerottolo dietro e ad ogni tre passi, aiutandosi con un salto, dava un calcio nel sedere al malcapitato, pronunciando parole per noi bambini incomprensibili.
Comprensibile era invece lo sguardo che il nostro amico ci rivolse. I suoi occhi apparivano pieni di lacrime e col suo accento francese ci disse: “Grazie bambini… ora è lui il più forte”.
Solo più avanti negli anni, compresi la scena di cui ero stato il testimone.
Il francese era un repubblichino, il nanerottolo, un partigiano dell’ultima ora.
Queste cose i bambini non le capiscono, sono cose da grandi; nella nostra innocenza però noi lo abbiamo ricordato come amico, il più debole in quel momento.
Il vincitore non ha mai e poi mai, il permesso di umiliare il vinto… dovrebbe essere così, ma…
P.S. Negli anni 50, il francese con la famiglia emigrò al nord, e di loro non ho saputo più nulla.
Il nanerottolo con la sua arroganza fece momentaneamente fortuna, ma poi è finito miseramente.

Trecenta 2002   

Il tarlo

Facciamo tesoro e impariamo affinché certi fatti orribili non si ripetano più.

Un saggio mi diceva che certi eventi si possono ripetere.

Lo faceva raccontandomi la sua storia:

partì militare a 17 anni, era del 99.

Tornò a casa poco più che ventenne,

annientato nel fisico e nel morale.

4 novembre, guerra finita, vittoria, vittoria!

Ma per lui nessun ringraziamento nessuna medaglia,

solo tristi ricordi, compagni lasciati a morire nel fango.

A poco servivano gli incoraggiamenti dei parenti:

“sei giovane, hai tutta una vita davanti”.

Solo il tempo attenuò il suo disagio.

In quegli anni venti, il caos regnava tra i politici e poco è servita la vittoria.

Le notizie che venivano dalla Russia

insinuarono nella testa di molti che il pericolo fosse solo rosso.

Alla gerarchia cattolica fece comodo e chiuse un occhio,

il tarlo si insinuò nei cervelli di molti italiani.

Quando si destarono e videro che il pericolo era anche nero, fu troppo tardi.

Per vent’anni ai cervelli annebbiati degli italiani  

non fu chiesto nessuno sforzo, per loro ci pensavano i gerarchi. 

Prima, col pretesto di allungare lo stivale,

poi per seguire il fanatico nazista.

Anche con il consenso del nano (Re Vittorio Emanuele III).

Da palazzo Venezia un grido: Guerra!

La folla plagiata rispose: Guerra, guerra!

Il nostro eroe invece con le mani nei capelli,

gridò “ci siamo ancora” altra cartolina di precetto.

Non una ma due: quella sua e quella di suo figlio 

lui tornò a casa, poco dopo, a quarantadue anni

ma ne dimostrava settanta, suo figlio spedito in Russia.

Qualche vittoria drogava la mente del popolo.

Ma crescevano le mamme che piangevano i propri figli caduti.

Il disastro sul fronte russo segnò l’inizio della fine.

Lui terrorizzato aspettava notizie dal foglio,

sempre più rare e poi più nulla.

L’armistizio dell’8 settembre 43 mise italiani contro italiani.

Partigiani contro repubblichini, altri morti, altre croci.

Il nostro amico ombra di sé stesso,

stringendomi la mano fra le sue tremanti, mi disse:

“Fu in quei giorni che ricevetti la notizia

di solo tre parole: SUO FIGLIO DISPERSO”.

Trattenendo le ultime lacrime che gli restavano continuò,

“tu vedi il mio corpo, ma la mia vita l’ho persa in quel momento”

non è servito neanche la tardiva nomina di:

CAVALIERE DI VITTORIO VENETO.

È possibile che ancora oggi qualcuno chiami, la GUERRA SANTA, e che insinui in certi cervelli QUESTO TARLO?…. BESTEMMIA…!    

Ricordo di bambina

Mentre assistevo alla cerimonia del venticinque Aprile, festa della Liberazione, mi si avvicina una gentile signora e mi dice: “Dopo la cerimonia se vuole Le racconto un episodio da me vissuto da bambina”. Dato che sono curioso per natura è stato come “invitare un’oco a bere”.

“Ero una bambina, e quello che sto per raccontarle è un fatto successo nel 1945. Io allora avevo solo otto anni ma  ricordo tutto come fosse successo ieri.

La mia famiglia era composta da otto persone: mamma, papà, nonna, io e mio fratello, e due zii, di cui uno sposato.

Nell’agosto 1944, lo zio sposato era stato catturato dai Tedeschi e portato prigioniero in Germania. Come ho detto, eravamo in Agosto ed il caldo non dava tregua. Mia zia decise di accompagnare la nonna a far visita ad un terzo zio che abitava in un paese vicino. Strada facendo la loro attenzione fu attratta dal rumore di aerei Tedeschi.

Stanche del viaggio si ripararono all’ombra di un albero per riposarsi, quando si accorsero che gli aerei in picchiata incominciarono a bombardare, una bomba micidiale cadde poco lontano, mia zia morì  all’istante e mia nonna rimase ferita per fortuna non gravemente.

I miei genitori vennero a conoscenza di una circolare firmata dal governo Italiano e quello Tedesco che diceva, che in caso di morte della mamma o della moglie i prigionieri venivano rimpatriati,

si attivarono per procurare i documenti necessari, ma qui nacque l’inghippo; tali documenti dovevano essere firmati dal gerarca preposto. Ma questo non volle firmarli. Dopo tante peripezie, mio padre riuscì a farli firmare tramite un sacerdote di Rovigo amico di famiglia, ma intanto erano passati quindici giorni e di mio zio non si seppe più niente.

Finita la guerra solo pochi prigionieri tornarono, uno di questi riferì alla mia famiglia, che quando i documenti arrivarono, mio zio era stato trasferito al campo di concentramento di Auschwitz da due giorni dal quale tornò mai più. Lascio a lei immaginare la fine che avrà fatto.

Un giorno di novembre del 1945, in mezzo ad una nebbia fitta mio padre riconobbe il gerarca fascista caduto in povertà, mentre raccoglieva legna nella Tenuta Spalletti. Alla sua vista, preso dalla rabbia, corse a casa a prendere il fucile, con l’intento di uccidere il vigliacco.  Ma la mamma e noi bambini ci mettemmo a piangere, supplicandolo di non farlo.

Lui continuava a dire che suo fratello aveva fatto quella fine nei campi di sterminio per causa sua. Ripose giù il fucile dicendoci  che lo faceva solo per noi, perché dei fratelli era rimasto solo lui.       

Infatti l’altro fratello era morto in Russia e la nonna ne era morta di crepacuore”.

Con le lacrime agli occhi, la signora mi sussurrò “Questo fatto non lo posso dimenticarlo, anche perché mio padre me lo ripeteva sempre. Io sono ormai anziana, ma i dettagli li ricordo ancora nitidamente, come se fosse successo ieri”. La salutai abbracciandola, e ringraziandola, perché con il loro intervento impedirono di aggiungere lutto a lutti, anche perché quel losco figuro fece una fine miserevole.

Il Sottotenente Pilota Sereno Ghiotti

La guerra semina lutti e distruzioni e ferite difficili da rimarginare.

Quante cose vediamo in un giorno, in una settimana, in un anno, che sfiorano la nostra mente senza che vi rimangano impresse. E poi ecco un lampo, ci viene un’idea, ci si incuriosisce e si vuol sapere.

Questo è successo a me ed a scatenare nella mia mente questa idea sono state due iscrizioni dedicate al Sottotenente Pilota Sereno Ghiotti.

Una di queste scritte l’ho notata e la noto tutti i giorni nel quartiere a lui dedicato dove abito. Per l’appunto il “Quartiere Sottotenente Sereno Ghiotti”. L’altra scritta si trova sulla porta di un’aula dell’Istituto Magistrale “C. Roccati” di Rovigo, dove mi reco per assistere alle lezioni dell’Università Popolare della Terza Età, e recita “AL SOTTOTENENTE SERENO GHIOTTI I COMPAGNI DI CLASSE NEL CINQUANTESIMO DELLA SUA MORTE  1940-1990”.

Sono due luoghi importanti per me: uno è dove mi sono trasferito ad abitare, e che spero di rimanervi fin che Dio piaccia, l’altro e dove mi reco per arricchire il mio carente bagaglio di sapere.

Quanti a Trecenta sanno veramente come sono andate le cose?

Pensate che non sia un buon motivo sapere chi era, cosa ha fatto, come è morto? Io dico di si.

Il nostro eroe era nato a Trecenta (Ro) il 12 settembre 1917, accolto con amore da papà Natale Antonio e dalla mamma Amabile Berti. Cresciuto in una famiglia numerosa, sette fratelli, quattro maschi e tre femmine, ha trascorso la sua infanzia in modo normale, ma da certi indizi si poteva capire che la sua vita gli avrebbe riservato un posto onorevole. Il suo carattere buono, socievole, altruistico, ha caratterizzato tutta la sua breve, ma intensa vita. Si diplomò presso l’Istituto Magistrale “Cristina Roccati” di Rovigo.

A 19 anni partì volontario, arruolandosi nel corpo militare della Regia. Aeronautica, dove conseguì il brevetto de pilota. Lo scoppio della seconda guerra mondiale lo vide in prima fila con il solo scopo di difendere le sorti della Patria.  

Fra i tanti atti di eroismo da lui compiuti, abbiamo, oltre alla testimonianza dei suoi famigliari, anche quella di un articolo pubblicato su il Gazzettino, giornale locale, del 27 agosto 1940, intitolato “LE AQUILE D’ITALIA” che diceva:

“Un giovane eroico pilota d’idrovolanti ha soccorso e tratto in salvo, in mare aperto, l’equipaggio di un trimotore costretto ad un ammaraggio forzato; egli è il sottotenente della Regia Aeronautica

Sereno Ghiotti di Trecenta (Rovigo). L’animoso ufficiale, avvistati i naufraghi aggrappati ai rottami dell’apparecchio, sganciò dal suo idrovolante le bombe per poter compiere la manovra di ammaraggio.

Ma una di queste s’inceppò rimanendo ostinatamente attaccata ai sostegni, fra i galleggianti.

Pur sapendo che al contatto con i flutti, la bomba esploderà, il pilota tenta ugualmente la sorte per salvare i compagni naufraghi esausti, effettuando la pericolosissima manovra.

Il velivolo ammara. La bomba si sgancia ed esplode in acqua. L’apparecchio è sollevato in alto, sulla colonna candida dello scoppio, ricade sulla rosa spumeggiante, paurosamente danneggiato.       

Ma il pilota sul battellino pneumatico di bordo riesce a trarre in salvo tutto il suo equipaggio e due dei naufraghi. Il gesto eroico del camerata palesano va segnalato come esempio di strenuo ardimento, di sprezzo del pericolo, di virtù militare”.

Partito per un’ulteriore pericolosa missione, il verdetto per il nostro eroe è stato tragico, sintetizzato in una sola parola: “Disperso”. A noi che lo ricordiamo resta solo da dire grazie amico Sereno, e sereno sia il tuo riposo nel mondo beato degli eroi.        

Lo yankee venuto dal cielo

Era un pomeriggio d’estate, quando un’auto di dimensioni inusuali entrò nel cortile della mia fattoria. Era da pochi anni finita la seconda guerra mondiale, se questa auto fosse del Consolato o dell’Ambasciata, non ve lo so dire, ricordo però che aveva la bandierina a stelle e strisce Americana, sul cofano.

Scesero tre persone: una signora vestita elegante di circa trent’anni, un signore, anche lui distinto, e un giovane, l’unico che parlava un corretto italiano. Chiese di parlare con il capo famiglia ovvero mio padre. La sorpresa e l’imbarazzo la fecero da padrone in quei primi momenti. Tutto si chiarì quando il giovane spiegò che volevano sapere se mio padre si ricordasse di un fatto tragico successo qualche anno prima, nel 1944, quando era caduto un aereo americano nella nostra azienda.

Il giovane si era presentato come l’interprete ed aveva poi presentato le altre due persone. La signora era la moglie di uno dei militari precipitati, l’altro signore era l’incaricato d’affari americano in Italia.

Tutti ci ricordavamo di quel fatto. Sparito l’imbarazzo, mio padre raccontò quello che era avvenuto.

Eravamo alla fine di maggio del 1944, quando verso le 10, una squadriglia di bombardieri americani era apparsa all’orizzonte, in direzione Verona da dove tornavano dopo un bombardamento effettuato sulla città.

Per noi bambini era uno spettacolo sorprendente ed eravamo tutti con il naso all’insù meravigliati. All’improvviso un aereo si staccò dal gruppo ben allineato, rimase quasi fermo nel cielo azzurro e poco dopo lo vedemmo prendere fuoco e scoppiare in mille pezzi. Era stato colpito in precedenza dalla contraerea.

In mezzo ai tanti rottami comparvero in cielo cinque o sei paracadute. Degli undici militari sull’aereo solo pochi erano riusciti ad aprire il paracadute. Anche se il vento era quasi inesistente i paracadutisti presero direzioni diverse per poi scomparire a terra. Non erano passate che poche ore quando i repubblichini, che stazionavano in zona, iniziano a setacciare le campagne. Nessuno si poteva avvicinare alla zona se non autorizzato.

Man mano che il racconto proseguiva, la signora sbiancava sempre più in viso, tanto che si rese necessario interrompere il racconto, offrirle una sedia e un bicchiere d’acqua e spostarsi all’ombra di un albero.

Per la verità il racconto veniva anche interrotto dall’interprete perché mio papà “a ghe sbrisava da parlare in dialetto”, iniziava a parlare dialetto. Era comprensibile, lui era nato nel 1899, quando in questo territorio si parlava solo il dialetto veneto e aveva poca dimestichezza con la lingua italiana.    

Mi ricordo che un paio di questi militari vennero ospitati, con grave pericolo, da persone coraggiose. Una storia circolata a fine guerra raccontava che un soldato era stato nascosto per tutto il tempo, fino alla fine della guerra, in un rifugio interrato sotto un porcile. In questo modo, la signora che lo ospitava, aveva facilità di alimentare il soldato senza essere scoperta. Il suo transito dalla casa al rifugio passava inosservata perché sembrava che l’operazione servisse per alimentare l’ “inquilino” del piano terra. Solo alla sera inoltrata l’ospite in grigioverde usciva guardingo dal suo nascondiglio. Scusatemi se mi sono allontanato dalla nostra storia.

Quel pomeriggio, i corpi degli aviatori morti vennero portati nel cimitero di Trecenta e piantonati. Dopo qualche giorno, uno dei miei famigliari, transitando per una sentiero costeggiato da filari di gelsi, venne colpito da un odore nauseabondo. Era il corpo di uno dei poveri caduti, in avanzato stato di putrefazione.

Ai pochi inizialmente presenti al racconto, se ne aggiunsero molti altri. Una scena così non capitava tutti i giorni. Ai miei cugini si unirono le loro mamme. Vedendo questa compagnia la signora si rinfrancò e cominciò distribuire dolci ai bambini e regali alle nostre mamme. Non c’è bisogno di spiegare la festa che coinvolse tutti.

Dopo questa parentesi, la scena si fece di nuovo seria. Fu chiesto alla signora il nome del marito, lei rispose “Giorg”. Le tre persone che erano passate per quel sentiero, mia sorella, mia zia e una mia cugina, si ricordarono che i gendarmi intervenuti subito dopo il ritrovamento, avevano letto questo nome dai documenti che lo sventurato aveva nel portafoglio e si ricordarono anche di aver visto delle fotografie, in cui riconobbero la nostra ospite. Riferirono anche l’impressione che ebbero in quel momento: si trattava di persone innamorate.

L’interprete riferì tutto e la bella signora, con le lacrime agli occhi, abbracciò le tre testimoni. Poi volle essere condotta sul posto del ritrovamento e dopo essersi fermata in silenzio per alcuni minuti,  scattò molte foto. Ne ricordo una in particolare, mio cugino, il più piccolo di noi, teneva in mano la foto del soldato morto. Era l’imbrunire quando la nostra amica americana  baciò tutti noi bambini e strinse la mano a tutti gli altri. Dopo avere preso posto in auto continuò a salutare con la mano, finché la nuvola di polvere sollevata dalla vettura la fece sparire dalla nostra vista. Oggi fatti un po’ di conti la signora dovrebbe avere novanta anni, se è ancora in vita la salutiamo, se invece ha raggiunto il suo “Giorg”, le diciamo, riposi in pace.           

Ecco i nomi di tre militari americani deceduti quella fatidica mattina, nomi conservati nel registro dei morti del Cimitero di Trecenta:

  • Chas Eduard Aneo, pilota di Philadelphia, matricola D.D.E.G.12027423, morto Luglio 1944, traslato in America
  • Lonis   A.  Rodriguez, matricola: 38331177.T .42-43/O, morto luglio 1944, traslato in America
  • George  B.  Miler, matricola 34689062.T.43-44.D, morto luglio 1944, traslato in America  

Borgoforte

Tra il fiume Adige e il piccolo fiume Gorzon, si trova un piccolo paese; Borgoforte.

Che sia un piccolo paese lo si può dedurre dal nome, è una frazione di Anguillara Veneta.

Fin da quando ero bambino questo Borgo mi ricorda qualcosa.

Se avete pazienza provo dirvi il perché!

Nel 1944, quindi dopo 8 settembre 1943, i Tedeschi preoccupati dalla piega che stava per prendere la guerra a loro sfavore, incalzati dalle truppe alleate e dai partigiani, si predisponevano a difendersi

costruendo fortificazioni. Le costruzioni venivano dirette e realizzate da una non meglio identificata T.O.T, nessuno mi ha mai spiegato cosa volesse dire questa sigla. So però che la comandavano i Tedeschi, per lo più anziani (i giovani erano al fronte,) e dai loro alleati, i Repubblichini italiani. Gli operai erano italiani reclutati fra gli sbandati, dopo l’8 settembre e non solo.

Fra questi un mio fratello, un mio zio, il mio futuro suocero e altri conoscenti.

Due i nomi di località che ricordo Borgoforte (PD) e Caprino Veronese (VR).

Gli operai erano alloggiati in stalle e fienili requisiti allo scopo. Il vettovagliamento era gestito da alcuni italiani. E’ bene dire che questi tenevano a stecchetto i commensali perché fossero più svelti, il resto scompariva. Sono passati tanti anni e quindi i miei ricordi sono sbiaditi, ma ancora leggibili. Pare che la dieta dei lavoratori fosse scarsa perché chi dirigeva le cucine, mentre i prigionieri erano assenti, provvedeva a  una parte delle vivande venisse trasferita in posti sicuri, lontano dai tedeschi. Avranno pensato che una volta finita la guerra, pasta, riso, scatolette, zucchero e chi più ne ha più ne metta, potevano venire buone per avviare una nuova attività.

Alle operazioni hanno assistito signori da me interrogati quando mi sono recato sul posto. Gli operai erano avviati al lavoro, che consisteva nello scavare trincee, bunker e posizionare cavalli di frisia. Tutte opere che non sono servite a niente come si è potuto costatare alla fine della guerra. L’esercito alleato si era attrezzato di mezzi talmente potenti che queste opere erano spazzate via come fuscelli.

Come già detto ho voluto vedere la zona, mi sono fatto accompagnare da un signore brizzolato, che bontà sua, pensava fossi un giornalista. Il posto più adatto per raccogliere informazioni è il bar del paese. Anche se il barista era nato nel 1948 si ricordava di un fienile, in mezzo alla campagna, sulle rive del Gorzon. Notizia utile per incominciare, perché i miei parenti mi avevano parlato di un fienile.

Il barista, per mostrare la sua cortesia ci fece accompagnare da un suo amico. Giunti sol posto, ringraziata la guida, ci presentammo ai padroni della fattoria, i Sig.ri Ferrari, persone cordialissime, ma che non sapevano niente, avendo preso possesso della fattoria nel 1952, otto anni dopo i fatti che ci occupavamo.

Dopo una breve consultazione i tre fratelli, ci indirizzarono dal sig. Giovanni Chioetti, dalla venerabile età di 84 anni, anche lui sbandato e quindi arruolato come i miei parenti, il quale mi accolse gentilmente.

Il suo racconto confermava quello che mi ricordavo, con qualche dettaglio in più. Per esempio il padrone era un Ebreo, il sig. Jacur Romanici e che i materiali che occorrevano venivano trasportato su carri trainati da buoi. L’informazione che mi colpì maggiormente fu che i poveri “cristi”, gli operai, erano trattati peggio dai connazionali. Egli asserì che, una volta finita la guerra, questi loschi figuri cambiarono “sponda” e rimasero sulla cresta dell’onda, occupando posti di prestigio.

Il sig. Giovanni si ricorda come trascorrevano la giornata. Una volta al lavoro, guai chi si fermava. Mio fratello mi ha riferito che di tedesco capiva solo due parole, “arbaite”e “saiza”. Poi tornavano al fienile a bordo di carri trainati da bovini e si lavavano nell’“albio” in cui si abbeveravano le mucche. Dopo il rancio serale si andava a dormire. I giovani trasgredivano moderatamente con i soliti scherzi, ma gli anziani dopo avere ingurgitato quella specie di sbobba

si ritiravano. A cosa pensavano? A casa, ai figli, ai loro poderi abbandonati.

Mio zio Antonio si appartava nell’angolo più nascosto del fienile “e zò zigare” (iniziava a piangere). Da notare che per la sua magrezza era stato esonerato dal servizio militare, ma a cinquant’anni era diventato idoneo.

Un giorno mentre erano traghettati sulla riva opposta del fiume, la zattera sbandò e lui volò in acqua e a voi immaginare! Mi dimenticavo di dirvi che i lavori da eseguire erano sulla sponda opposta del fiume e per traghettare si servivano di una zattera. Il conducente servendosi di una corda fissata a due appositi pali, sulle due sponde, col passamano evitava che la corrente portasse  alla deriva il carico e nello stesso tempo traghettava il mezzo sull’altra sponda.

Io con la mia fervida fantasia lo chiamai: “Il Caronte del Gorzon”. Come tutti i giullari vi dico che se la storia vi è piaciuta, bene, se no pazienza. Però vi prego di pensare un po’ a quei “poveri cristi”.

La sporca esecuzione dei martiri di Trecenta

Quello che state per leggere non vuole essere un documento storico. E’ un racconto che prende le mosse da un fatto tragico realmente accaduto il 24 Aprile 1945 a Trecenta. Il mio unico scopo è quello di ricordare la fine tragica di alcuni giovani e rendere loro un breve tributo perché il loro sacrificio non sia stato inutile.

La cronaca racconta di esequie che si svolsero nella chiesa Parrocchiale S. Giorgio di Trecenta, qualche giorno dopo al fine della guerra, il 27 Aprile, in un clima commovente, doloroso e rassegnato. Fu un funerale collettivo dove si contarono dieci bare, quattro giovani partigiani o presunti tali ed altre sei vittime, massacrati dai tedeschi  in ritirata. Un’altra vittima di quei tragici giorni, per motivi burocratici, ebbe la  cerimonia singola il giorno dopo.

Per il numero e per la causa è rimasta la tragedia più grave del nostro paese che neanche il tempo potrà far dimenticare. La commozione ed il dolore era sul volto di tutti i partecipanti, i parenti erano distrutti, molti genitori e fratelli non ebbero neppure la forza di partecipare ai funerali, preferirono chiudersi nel loro dolore.

Ecco i loro nomi:

Età (anni e mesi)Nati aProfessione
Mondini Guglielmo16  e 9Riva del Gardastudente
Pasqualini Ermete18  e 7Trecentaoperaio
Zorzan Rino18  e 10Giaccianooperaio
Bellinello Erminio22  e 5Grignano Pol.studente
Scavazza Enrico25  e  4Trecentaoperaio
Ferraresi Giovanni30  e   6Trecentaoperaio
Baschirotto Silvestro31  e  9Trecentaoperaio
Casari Ferruccio38 e 1Trecentaagricoltore
Scarpari Arnaldo49  e  5Trecentaagricoltore
Veronesi Angelo63  e  7Villamarzanaagricoltore
Azzolini Anselmo67  e  3Trecentaimprenditore

Questo racconto parla dei quattro giovani partigiani, dei loro compagni e dei loro amici e parenti che li piansero.  Delle altre vittime parleremo forse un’altra volta.

I fatti si svolsero i giorni precedenti la Liberazione: il clima era pesante, i repubblichini, padroni della situazione, fino a pochi giorni prima, resesi conto che la fine era vicina, avevano fatto fagotto e si erano eclissati. Qualcuno si era convertito all’ultimo momento ed era passato con i  partigiani ed uno di questi, all’alba del 25 aprile, benché sconsigliato dai nuovi compagni, per dare prova e far vedere la serietà della sua conversione, uscì allo scoperto e fu colpito da una fucilata infertagli da un tedesco nascosto dietro il mulino. Ma di questo parleremo più avanti.

 Andiamo al 23 pomeriggio, giorno dedicato a S. Giorgio, patrono di Trecenta. I partigiani venuti a conoscenza della fine imminente della guerra, avevano chiesto aiuto alle truppe alleate che avanzavano in modo spedito trovando scarsa resistenza; le truppe tedesche erano allo sbando. L’obiettivo dei partigiani era l’eliminazione degli ultimi gruppi di tedeschi irriducibili asserragliati oltre il fiume Tartaro. Gli Alleati rifiutarono.

Il comandante dei partigiani, a questo punto, decise di elaborare una nuova strategia. Studiato nei minimi particolari, l’attacco fu fissato per l’alba del 24 Aprile. Nel frattempo, l’obiettivo di quel pomeriggio, non meno pericoloso, era il riprendere possesso della casa del fascio. Il compito si rivelò più facile del previsto, dato che gli inquilini l’avevano abbandonata notte tempo.

Nonostante il successo, per prudenza i veterani consigliarono i più giovani ed inesperti di non muoversi dalle loro case ritenendoli in pericolo vista la situazione creatasi. Ma qualcosa non funzionò. Le voci che corsero e che corrono tutt’oggi sono le più varie: i giovani non seguirono i consigli perché furono contattati da qualcuno di cui loro avevano fiducia che, con la promessa di un paio di pantaloni pro capite, li invitò quel pomeriggio del 23 aprile ad andare in piazza. Si potrebbe pensare che un paio di pantaloni fosse un premio scarso per una missione così pericolosa. Ma per chi era povero in canna era già molto. Il resto probabilmente lo fece l’entusiasmo e la giovane età. Un’altra voce, la più inquietante, parla di un tradimento: si dice che si fossero fidati di un professore loro amico e confidente che prima li istruì e poi li tradì facendo il loro nome ad una spia dei tedeschi. Si parlò anche di una telefonata fatta ai compagni di Badia Polesine per chiedere rinforzi, ma non si sa se per sbaglio, o per una delazione, invece dei compagni arrivarono i soldati delle S.S. Fatto sta che all’imbrunire furono catturati sei giovani, immediatamente portati nella sede tedesca ospitata nell’abitazione del Prof. Badaloni. Erano molto giovani, tra 17 – 22 anni, quattro erano trecentani: Furini Mario, Pasqualini Ermete, Scarazzati Romano e Zorzan Rino, due erano invece studenti ospiti di una famiglia del luogo: Belinello Erminio e Mondini Guglielmo.

Essi furono sottoposti ad un duro interrogatorio, minacciati e poi torturati con crudeltà: bruciatura di sigaretta, calci e pugni senza risparmiare nessuna parte del corpo, testa, torace, genitali, per ore ed ore tutta la notte. Le urla, le grida e  le implorazioni si sentivano in tutto il circondario. Quando disperato uno di loro, Ermete, li supplicò di smettere perché aveva la mamma malata ed il papà prigioniero in Germania, gli aguzzini infierirono ancora di più, urlandogli le parole: “Figlio di un cane, degno figlio di tuo padre. Ora comprendiamo di che razza sei.”. Ad onore di cronaca pare che in quella casa, complici dei tedeschi, fossero presenti una o più persone di Trecenta che però non hanno partecipato alle sevizie.

Alla prime ore del giorno gli aguzzini, non ottenendo risposte soddisfacenti, passarono alle vie di fatto. Uno alla volta li fecero uscire sulla strada, ora via N. Badaloni, facendo loro credere di essere liberi. Il primo ad uscire, si accorse subito, varcando la soglia di essere atteso da due tedeschi armati di mitra. Fatti pochi passi, invece di aria buona, lo aspettava una scarica di mitra. Solo Dio può sapere la disperazione e i pensieri che passarono in quei momenti per la testa di quei poveri giovani. La scena si ripeté per altre tre volte, la disperazione cresceva. Gli ultimi due, raccolte le loro ultime forze, tentarono il tutto per tutto e, con gesto fulmineo, uscirono all’impazzata. Con una spallata fecero ruzzolare a terra i due tedeschi. Con le forze rimaste fecero qualche decina di metri in direzioni opposte e oltrepassarono con un salto le recinzioni di due abitazione vicine. Riavutisi dalla sorpresa, i due tedeschi spararono in direzione dei fuggitivi, per fortuna, con scarso risultato, solo qualche graffio su un corpo già  martoriato. In questo modo si salvarono.

Lasciamo i due scampati nei loro nascondigli di fortuna e torniamo sul luogo del massacro. Tra i primi a recarsi sul posto ci fu la fidanzatina di uno di questi poveri ragazzi (ancora adesso a più di mezzo secolo di distanza, a chi la interroga la prima risposta la danno gli occhi che le si riempiono di lacrime) solo dopo un po’, sforzandosi,  incomincia a raccontare: “La scena ca me se gà presentà davanti la iera da inferno, i corpi i iera talmente massacrà che  quasi non i se podea riconosare, gò riconosesto al me moroso  più che altro da un segno particolare”

 “Vinta dal me istinto me son butà su de lu basandolo e accarezadolo zercavo de rianimarlo disperada, ma ne ghe stà gnente da fare, finchè sfinia gò dovesto arrenderme, e pò son sta portà via a forza da quache persona pietosa.” 

Qui si ferma vinta dalla commozione, qualche ora dopo asciugate le lacrime riprende.

“Mi scuso se non go podù continuare a rispondare alle vostre domande qualche ora  fa, iera sfinia. Ora ca go la mente serena anca se sempre sconvolta posso dirve cosa go provà in te chi momenti. Subito, alla prima notizia, ne volea credarghe, me son fatta coraio e o volesto vedarghe ciaro. Da casa mia al posto maledio la go fatta de corsa, dalla foga son cascà un paro de olte come inebetia. La me mente confusa passava dalla speranza ca ne fosse vero, alla disperazion dal contrario. In te cal tratto de strada, quanti pensieri a me pasà par la testa. Come na fotografia go visto i momenti bei co passà col me morosetto. Ierino poco più che potleti, lu non al gavea ancora tutta la barba, mi con ancora i calzetti a sganbarela ma se piasevino cusi come ca ierino. Divento ancora rossa in faccia a dirve ste robe, un dei pensieri ca me vegnù in mente in ta chel momento le sta i primi appuntamenti segreti, parchè ne vegnese savere gnente i nostri genitori che come minimo i savaria dà dei “snarucion” e che a ghevino ancora “la pisota al sole”. Il primo baso ca sen da al ma fatto l’efetto de un terramoto, in ben sintende. I progetti ca fasevino par l’avenire iera poveri, ma sopratutto parchè poveri, i sogni, fanno vivere meio, e sopratuto i ne costa gnente.

Arrivada a pochi passi dal masacro me son dita: se la notizia l’è vera de i to sogni te restarà un pugno de mosche; che tremendo risveio: la notizia la iera purtroppo vera. I giorni che seguirono iò bagnà de lagreme, tutte quelle ca ghea in ti oci. A sedese anni un trauma qusì nol se pol augurare gnanche al pezo nemigo. Go trovà conforto in te i me genitori (lori i ne mla mai  dito, ma i saea tutto dei miei amoretti, e al ghe piasea anca a loro ……al me moretto). Ma solo la mia forte fede in Dio me ga iutà a vivere. Go  confessa, tutto  a quelo che dopo tanti anni le deventà me marì e go chiesto rispetto par al  me ricordo, e son stà capia, ora ie tutti e du in zielo e sento che i me protege. Ve prego avi rispetto dla me storia.”

Chiusa questa parte di racconto, occupiamoci dei due scampati miracolosamente al massacro, uno il Romano Scarazzati, si era rifugiato nel  cortile della Casa Divina Provvidenza (nome bene augurante), l’altro, Mario Furini, si era rifugiato nel parco del sig. Milani (da notare che erano amici per la pelle e mai come in questo caso il detto era azzeccato). Ora si trattava di ricuperarli e portali in salvo. Il clima di quelle ore già lo conosciamo, Romano è stato soccorso quasi subito dal fratello maggiore, medicato alla meno peggio dalle suore della casa Divina Provvidenza, però occorreva trovare un nascondiglio più lontano e più sicuro. Il fratello chiese ospitalità presso amici nella valle Spaletti. Questi si dichiararono spiacenti e rifiutarono, adducendo il motivo che anche loro erano nel mirino dei tedeschi. Mario invece fu ospitato da una zia insospettabile. Solo a tarda sera, col buio, furono trasportati nell’Ospedale di fortuna che il Prof. Grisetti aveva organizzato nell’abitazione del sig. Bertazza in via Bon dopo avere abbandonato quello in centro preso di mira dai bombardamenti. La forte fibra e l’età permise loro di guarire in poco tempo le ferite nel corpo; quelle morali avrebbero avuto bisogno di molto più tempo, e forse non sono mai guarite.

Ora proviamo vedere in dettaglio le peripezie e i pericoli corsi per mettere in salvo Romano. Come già accennato il  fratello maggiore Nino coordinatore dei partigiani locali, si doveva destreggiare fra i mille pericoli disseminati  sul  percorso. L’unico mezzo di trasporto era la bicicletta: ne aveva assoluto bisogno il nostro eroe; tramite un bambino fece arrivare la richiesta a casa sua, fissando l’appuntamento in via Strada Morta a qualche centinaio di metri da casa sua, severamente controllata dai tedeschi, che conoscevano il ruolo del ragazzo. Trovata una vecchia bicicletta, gliela fecero recapitare dai due fratelli minori Walter e Erminia, attraverso i campi, per non passare vicino alla Fornace che era presidiata dagli ultimi tedeschi, ma pur sempre pericolosi, come abbiamo visto.

Il punto più pericoloso lo passarono percorrendo un fosso profondo sguazzando nell’acqua fino alle ginocchia, la fatica fu enorme ma servì per passare senza essere visti e consegnata la bici al fratello, caddero sfiniti a terra ma soddisfatti  per l’opera buona compiuta. Il ciclista intanto si allontanò attraverso i viottoli di campagna verso il traguardo che lo aspettava. Questi avvenimenti si svolsero il pomeriggio del 24.

Dopo i gravissimi fatti vissuti il mattino e il ricovero in Ospedale dei feriti, non ci resta che narrare l’epilogo della sortita che doveva portare l’eliminazione degli ultimi drappelli tedeschi come sappiamo appostati oltre il fiume Tartaro. Precedentemente, abbiamo lasciato i partigiani locali  dopo che avevano elaborato la loro strategia, che era questa: un gruppo di partigiani doveva salire sull’argine del fiume al “caladin” ora via Donizzetti, un secondo gruppo alla nave (l’ex casa della signora Marina Ganzaroli ora Bimbati, al centro rispetto l’obiettivo). Il loro compito era di coprire col fuoco dei loro fucili l’attraversamento del fiume da parte di un terzo gruppo composto da veterani.

Al segnale convenuto scattò l’operazione, i tedeschi presi di sorpresa non riuscirono ad organizzarsi, ma riuscirono ad uccidere il convertito dell’ultimo momento alla fede partigiana che abbiamo conosciuto all’inizio di questa brutta storia.          

Chi riporta queste storie tragiche non parteggia per una o l’atra parte in campo, ma è dalla parte del più debole, è contro la sopraffazione. Spetta a chi ha fatto del male chiedere scusa. Detto ciò riporto ora alcuni episodi dolorosi verificati dopo la tragedia. Ricordate, abbiamo detto che il papà del povero Ermete era prigioniero in Germania; liberato, tornando a casa in condizioni pessime, per strada incontrò un conoscente, dopo averlo salutato, chiese se nella sua famiglia, durante la sua assenza fosse successo qualcosa, ricevuta la risposta che non era successo niente, barcollando scuotendo la testa pronunciò queste parole: “Tu non me la racconti giusta, è da tempo che dentro di me, qualcosa mi dice che mi deve essere accaduta una grossa disgrazia, grazie lo stesso”. Il sangue non è acqua, fra gli stenti subiti e il peso della disgrazia, visse qualche anno malamente e poi raggiunse il figlio.   

Altro episodio che mi è stato riferito è il seguente: qualche giorno dopo, finita la guerra, fece visita alla caserma dei carabinieri di Trecenta un signore di Grignano Polesine chiedendo di un carcerato. Si deve notare che in quei momenti tutto era nel  caos e che anche la caserma era presidiata dai partigiani. Ricevuta la risposta affermativa (il carcerato era un presunto responsabile del massacro del 24 marzo, catturato il giorno dopo) chiese se gli davano il permesso di vederlo. Una volta aperta la porta della cella, come un fulmine, si avventò sulla preda con calci e pugni da ridurgli in poco tempo la faccia una maschera di sangue, occhi tumefati e denti che volavano, gridando: “Non riavrò più mio fratello, ma ogni volta che ti incontrerò ti massacrerò di botte”. Se non fossero intervenuti, egli lo avrebbe ucciso con le sue mani, tanta era la smania di vendicare il fratello. Avrete capito si trattava del fratello di Erminio Bellinello.

Come in tutte vicende umane, c’è chi ci rimette e chi ne approfitta. Si narra che alcuni partigiani (il cui nome venne cambiato in “gratigiani”) subito dopo la fine della guerra, o la notte stessa, svaligiarono i due depositi tedeschi che si trovavano in Villa Pepoli (il “Palazon”) e nella fornace Crivellari, razziando tutto quello che poterono. Io credo nel proverbio “la roba male acquistà come la vien la và” e ne ho avuta la conferma: dopo momenti di sfacciata baldoria, quasi tutti i ladri sono finiti miseramente.

Il fratello di uno dei caduti mi ha raccontato che quando è tornato a casa dopo parecchi mesi di prigionia, non sapeva della morte del fratello. La notizia lo colpì molto duramente e rimase traumatizzato. Mentre gli raccontavano come si svolsero i fatti, nella sua mente si fece strada la volontà di vendicarsi e di rendere giustizia al fratello. Aveva individuato in un compaesano quello che, secondo lui, era complice nel delitto e si mise a braccarlo. Ossessionato dalla convinzione che era suo dovere eliminarlo, portava sempre con se una rivoltella carica. La mamma, venuta a conoscenza dell’intenzione del figlio, lo scongiurò a desistere dal suo proposito di vendetta con queste parole: “Questa maledetta storia mi ha tolto un figlio, se ti vendichi, ne perdo un altro. Lascia che sia Dio a provvedere con la sua giustizia.”

Tanto insistette che lo convinse a desistere dal suo progetto. Per precauzione e per paura di tornare sui suoi passi, una mattina all’alba si recò sul ponte del tartaro e gettò l’arma nel fiume mentre il sole stava sorgendo.

Emblematica è la storia di una madre di uno dei caduti. Per tutto il tempo che visse non volle mai passare davanti alla casa dove le avevano massacrato il figlio, al punto che per portare il pranzo al marito che lavorava come mugnaio poco distante, preferiva fare a piedi il giro della piazza allungando la strada di un chilometro. Nel giorno della commemorazione dei defunti si ricava sulla tomba del figlio al mattino presto e vi rimaneva, anche con la pioggia e al freddo, fino a sera fissando per un’intera giornata la foto del figlio

Se la guerra provoca questi orrori e questi dolori non si capisce perché anche in questi giorni qualcuno sostiene che la guerra è l’unica soluzione delle controversie internazionali. Se poi teniamo presente le gravissime parole: “In tempo di pace i figli seppelliscono i padri, invece in tempo di guerra sono i padri che seppelliscono i figli”.

Taglio della mano

Per capire la storia che sto per raccontarvi è necessario conoscere il contesto e il clima in cui si è svolto l’evento. Era l’estate del 1944, tempo di guerra, nella fattoria di campagna, dove abitavo con la mia famiglia. La famiglia era di tipo patriarcale: contando i miei genitori, i miei fratelli, gli zii e i cugini, eravamo in diciannove. Se aggiungiamo le famiglie dei braccianti che abitavano vicino, il numero di bambini e di ragazzi che gravitavano attorno alla corte superava la quindicina.

Raggruppati per fasce di età, si trascorrevano le giornate giocando ai giochi in voga a quei tempi: il nascondino (che noi chiamavamo “puccia”), a pallone (fatto di stracci, s’intende, perché quello di cuoio era un lusso che pochi potevano permettersi), a “biscara” ed il cerchio.

“Biscara” è un gioco che si avvale di un pezzo di legno, non più lungo di 20 cm, appuntito alle due estremità. Con un bastone doveva essere colpito e fatto volare il più lontano possibile. Il gioco richiede destrezza da parte del lanciatore. Ad ogni lancio veniva attribuito un punteggio e vinceva che faceva più punti. Il cerchio, invece, si faceva rotolare. Era di legno e spesso non era troppo rotondo e occorreva abilità per farlo stare diritto. Le bambine giocavano con le bambole di pezza, fatte dalle nonne. Insomma, non ci si annoiava.

La zona era occupata da truppe tedesche e spesso i plotoni in transito sostavano nella fattoria. Se arrivavano con carri o carrette militari trainate da cavalli, anche se erano di notte, i soldati ordinavano di liberare la stalla, di far uscire all’aperto le mucche e i vitelli per far posto ai loro cavalli. Se arrivavano con automezzi si doveva liberare i ricoveri attrezzi per mettere al coperto i loro mezzi. Potete immaginare il caos, la confusione e lo stato di agitazione che si generava in quei momenti. Aggiungiamo che spesso i nuovi arrivati, che a volte erano numerosi, pretendevano anche da mangiare e veniva invasa anche la casa.

Come in tutte le genti, anche tra i tedeschi c’è brava gente rispettosa e ci sono i villani e prepotenti. Le donne erano terrorizzate, avevano difficoltà a comprendere gli ordini e paura di sbagliare. Le operazioni venivano effettuate dalle donne anziane che raccomandavano alle giovani di farsi vedere il meno possibile (la prudenza in questi casi non era mai troppa).

Ed ora arriviamo al triste episodio di cui sono stato testimone: era il mese di settembre e una decina di camion avevano invaso la corte, sistemandosi in parte sotto il fienile, parte sotto le barchesse e parte all’ombra delle stesse. Per loro era una necessità per dare meno nell’occhio e non essere visti dagli aerei alleati che sorvolavano la zona. A queste invasioni, a malincuore, ci si può fare l’abitudine: di solito, al termine di queste operazioni, tornava la calma. Ma quel giorno non fu così. Era di pomeriggio ed il sole faceva ancora sentire il suo calore; una strana agitazione ruppe la calma, un parlottare crescente, a noi incompressibile, coinvolse tutti i militari. L’ufficiale in comando, una volta appurati i fatti, convocò le donne anziane, le mamme per capirci e con tono minaccioso, cercando si essere ben compreso, espose loro il caso: era sparita una penna stilografica.

Era successo che un militare stava scrivendo una lettera, seduto al posto di guida di un camion. All’ora di pranzo sospese l’attività ma al suo ritorno non trovò più la penna stilografica che stava usando. A suo dire, l’oggetto aveva un valore economico ed affettivo perché era il regalo di sua madre.

Esposto il caso, il comandante minacciò che se entro tre ore la penna non fosse stata consegnata spontaneamente, ci avrebbe pensato lui a trovare il colpevole e quando lo avrebbe trovato gli avrebbe tagliato la mano. Dal tono con cui egli pronunciò quelle parole non ne poteva venire nulla di buono. L’appello era stato rivolto alle mamme perché alcuni bambini erano stati visti gironzolare attorno al luogo del misfatto. Io, che ero un bambino di sei anni, fui tanto turbato dall’evento che ancora adesso mi fa male pensarci; fu uno dei momenti più brutti della mia vita.

Alle donne non rimase che organizzarsi, per prima cosa si accertarono che la penna non fosse per caso caduta dentro o vicino al camion. Ma la ricerca non dette alcun risultato. Continuarono a cercare per terra, nel cortile. A complicare la ricerca, il cortile era tutto coperto dalle foglie di mais messe ad essiccare per essere usate come foraggio per i bovini. Era proprio come dice il proverbio: cercare un ago in un pagliaio. Le donne disposte a ventaglio rovistarono tra le foglie per più di una volta, senza ottenere alcun risultato.

I loro volti erano coperte di gocce che cadevano a terra, ma non si capiva se era sudore o lacrime. Il comandante le incitava con urla, senza dar loro respiro, agitando un rasoio affilatissimo. Ma anche questo era inutile. Alle donne si aggregarono gli uomini più anziani mentre i giovani, che erano sbandati, non dovevano farsi vedere.

La notizia si era diffusa nel vicinato e altre persone arrivarono in aiuto. Tutto inutile, tutto vano, la penna non si trovava.

Nel frattempo gli adulti interrogavano i bambini, almeno quei pochi che non si erano nascosti. Anche l’interrogatorio non dava risultato. Il sole stava calando, il tempo passava inesorabile e l’ultimatum stava per scadere. La situazione era sempre più grave.

Fu a questo punto che arrivò una donna, dalla figura esile, che teneva nella mano tremante, la maledetta penna. Il comandante, appena la vide, divenne furioso e con modi bruschi iniziò ad interrogare la poveretta. Singhiozzando, la donna asseriva che suo figlio aveva trovato la penna per terra, lontano dal camion, e non l’aveva rubata.

L’ufficiale non fu convinto dalla risposta e volle che gli fosse portato il ragazzo. L’abitazione della donna distava mezzo chilometro e anche se fatto di corsa ci vollero alcuni minuti e l’attesa rendeva ancora più nervoso il militare. Alla fine ricomparve la piccola figura della donna disperata, sembrava ancora più piccola, tenendo per mano il figlioletto.

Senza proferire parole, il giustiziere, con una mano prese il braccio del bambino e con l’altra il rasoio. Un brivido corse tra i presenti, le donne disperate, con le mani nei capelli, imploravano perdono. La lama del rasoio si fermò a pochi centimetri dal polso. Con gli occhi spiritati e con voce infernale, il giustiziere pronunciò la parola “raus”. E tutti fuggirono.

Il bambino, incolume, forse non si rese conto del pericolo corso. Ma la mamma svenne e riavutasi poco dopo, con un filo di voce, esortò il figlio di non impossessarsi mai più della roba di altri. Barcollando, poi si incammino verso casa.

Ancora oggi, avendo assistito alla scena, mi chiedo se la cosa poteva finire tragicamente o se era solo un gesto intimidatorio messo in atto dal più forte. Posso anche comprendere che essendo in guerra egli doveva dare l’esempio, ma certe ferite tardano a guarire.

Il bombardamento alla Cala’ dal Moro

Il fatto che mi accingo a descrivere è avvenuto nel 1945. Si ha un bel dire che la memoria immagazzina dati e che l’età più proficua è quella infantile, ma a distanza di sessanta anni la scena principale è nitida nella mia mente tanta è stata la sua gravità. Però qualche carenza la si potrà trovare nei dettagli e mi perdonerete se nel racconto troverete qualche inesattezza. Per essere più preciso sono ricorso alle testimonianze di mio fratello Alfredo e al signor Galani Edmo, più anziani di me.

Tutti i giorni sentivamo parlare di bombardamenti sulle città vicine (Verona, Ferrara) e contro i ponti sui fiumi Po e Adige. Molti segni facevano prevedere che il ritiro delle truppe Tedesche fosse imminente. Le strade erano sbarrate da tronchi di albero conficcati per terra e lunghe colonne di mezzi di tutti i tipi erano diretti verso nord: autocarri, carri e carrette trainate da animali, auto per i superiori, biciclette e soprattutto la truppa a piedi. La conferma di tutto ciò veniva anche dalle confessioni fatte sottovoce da qualche militare stanco e sfiduciato, consapevole che la fine era alle porte, anche se la propaganda dei comandi militari non ne voleva sentire parlare.

L’uomo, re degli animali, che come loro è dotato di un sesto senso, quel giorno era in preda ad un presentimento. Era il 23 aprile, festa del patrono di Trecenta, San Giorgio, la primavera in tutta la sua bellezza si manifestava con gli alberi in fiore, i prati incominciavano a coprirsi di erba, gli uccelli che allietavano la scena con i loro canti. Noi bambini, dopo il rigore invernale, ci sentivamo felici nel riprendere i nostri giochi all’aria aperta. Tutto bene? No!

Si avvertiva nell’aria che qualcosa doveva succedere. Quel mattino noi bambini tornati a casa accompagnati da qualche adulto, dopo la Messa in onore del patrono, inconsci nella nostra innocenza, non comprendevamo appieno le raccomandazioni di non allontanarci dal rifugio antiaereo. Per capire meglio quei momenti è bene riassumere la situazione di quel periodo. Alla bellezza della natura si opponevano i tristi eventi in corso con la guerra che durava da cinque anni, portando lutti e distruzioni. La preoccupazione maggiore erano i colpi di coda dei belligeranti giunti allo stremo delle forze.

Quando la sorte le baciava in fronte ed erano ad un passo dal conquistare tutta l’Europa, le truppe tedesche non pensavano minimamente che un giorno il vento sarebbe cambiato. Ed invece il declino era venuto ed ora stavano effettuando una ritirata disastrosa. I ponti sui fiumi erano stati distrutti e sono comprensibili le difficoltà che i soldati incontravano.

Testimonianze affermano di avere visto attraversare il fiume Po con i mezzi più disparati. Poche erano le barche rimaste perché la maggior parte erano state messe fuori uso dai pescatori solidali con i partigiani. I soldati erano costretti ad usare zattere costruite con tronchi d’albero, cavalcando botti e mastelli da vino, alcuni perfino hanno tentato con ceste e “corghi” che, essendo fatti di vimini, non potevano sostenere il peso di una persona. La fretta di attraversare era tale che ogni mezzo era buono.

Il caos era indescrivibile. Le barche troppo cariche si rovesciavano, le zattere ingovernabili andavano alla deriva e gli occupanti erano un bersaglio fin troppo facile per i fucili dei cecchini, le botti rotolavano spinte dalla corrente e le ceste colavano a picco dopo pochi metri. Chi sapeva nuotare, a fatica, raggiungeva la riva, mentre la maggioranza era destinata a scomparire ed annegare travolta dalla forte corrente del fiume alimentato dalle forti piogge primaverili. I corpi senza vita che galleggiavano sulle acque limacciose si contavano a decine.

Se queste notizie, che mi sono state riferite, possono sembrare esagerate, quelle che vi riferisco ora, vi assicuro, rispondono a verità perché, anche se ero bambino, ne sono stato testimone.

In quei giorni salendo sulle rive del fiume Tartaro vicino a casa mia, potei vedere cadaveri di poveri soldati che galleggiavano verso il mare, e ricordo che tutti avevano la faccia rivolta verso l’acqua, dando a vedere solo la schiena, nella mia fantasia di bambino ho interpretato questo fatto in questo modo. Quei poveri ragazzi, dopo morti, non volevano guardare il mondo che li aveva illusi e rovinati. Ricordo ancora le parole di mia mamma, che guardando queste scene mi diceva: “Di loro dobbiamo avere pietà e pregare per loro e per le povere mamme che li piangono e non avranno il posto dove deporre un fiore”.

Dopo avere descritto il quadro fosco che si stava vivendo, riprendiamo il filo del discorso. Fin da mezzogiorno le truppe tedesche erano in agitazione, ricognitori sorvolavano la zona a bassa quota. Ne seguì un silenzio irreale. Alle ore 15 un rumore assordante ruppe la quiete momentanea, erano una dozzina di caccia bombardieri, che dopo avere effettuato le operazioni di attacco, mettendosi in fila indiana si abbassarono e incominciarono a sganciare il loro carico di morte e distruzione Avevano come obbiettivo il ponte della località “Calà del moro”, poco distante da casa mia.

In pochi minuti una tempesta di fuoco venne scagliata sull’obiettivo. Le case adiacenti si accartocciarono come fossero di carta, le bombe toccando terra deflagravano spargendo tutto attorno distruzione e morte. Anche se era l’obbiettivo, per ironia della sorte il ponte si salvò. Tutti ritenevano che il ponte non fosse un bersaglio importante trattandosi di un manufatto in ferro con la sede stradale in legno. Dopo si seppe che, in zona, era l’unico ponte segnato sulle carte topografiche in possesso dei militari Alleati. Anche se ero un bambino di sei anni ho ancora nitida nella mente la scena. Le alte colonne di fumo, il fragore degli scoppi, il bagliore delle esplosioni. La scena più toccante è stata dopo il bombardamento, quando i soccorritori, con ogni mezzo a disposizione, cercavano di salvare i poveri sventurati, guidati dalle grida e gemiti di dolore e dalle richieste di aiuto proveniente dalle macerie.

Verso sera, quando il silenzio si era fatto spettrale, estrassero dalle macerie i corpi straziati di una madre con i suoi due figli, che respiravano ancora, stretti l’una agli altri nell’ultimo abbraccio. Pochi istanti dopo spirarono. La commozione e lo sconforto prese tutti i presenti. Si disse che si erano allontanati momentaneamente dal rifugio, dove erano ospitati, per recarsi in casa a fare provvista di cibo e di indumenti. La sorte volle che vi trovassero la morte. Ricordo ancora il nome della mamma: Marta. 

Vedendo i soccorritori sfiniti e in preda ad una straziante commozione, constatando che i loro sforzi erano stati vani, capii per la prima volta quanto dolore possa procurare la guerra, quanto questa sia frutto dell’egoismo e sopraffazione di pochi uomini e che quasi sempre a farne le spese siano gli innocenti e i più indifesi.