L’alluvione del Po del 1951

Il mattino sembrava normale, un mercoledì di Novembre e precisamente il 14 e l’anno era il 1951. Il cielo era grigio anche se il grosso delle piogge era caduto qualche giorno prima.

Non sapevo il perché, ma ero particolarmente malinconico e davo la colpa al fatto che i miei cugini avevano iniziato ad andare a scuola ed io no, per il semplice motivo che avevo terminato le elementari. Mi sarebbe piaciuto continuare ma i tempi e le condizioni famigliari non me lo permisero.

Tutti i mercoledì, i contadini e i cittadini che non erano occupati in lavori urgenti e che volevano aggiornarsi sui prezzi e sull’andamento dei mercati, si ricavano a Badia Polesine, dove si svolgeva il mercato più importante della zona. E così fece anche mio padre.

Ma che fosse un giorno diverso lo compresi alle 10, quando sia mio papà che i miei cugini  tornarono a casa con la triste notizia: “Il Po sta per rompere gli argini.”

I mezzi di comunicazione (che oggi chiamiamo “mass media”) erano pochi. Poche erano le famiglie che leggevano giornali o possedevano apparecchi radio: si può immaginare come le informazioni erano scarse. Come fanno gli animali, anche gli uomini nel pericolo si sentono più sicuri se uniti. Quindi i vari componenti della famiglia abbandonarono le occupazioni non urgenti per discutere e prendere la decisioni più giusta. Ma che decisioni si possono prendere quando il problema da risolvere è poco chiaro? Si rende necessario saperne di più. Non restava che recarsi sulle rive del Po e constatare di persona la situazione. Qui nasceva il primo ostacolo: la distanza da casa mia agli argini del Po era di 9 km da fare in bicicletta, a quei tempi uno dei pochi mezzi a disposizione, ci si impiegava un’ora ad andare ed un’ora a venire. Secondo ostacolo: chi doveva andare? Il capo famiglia doveva restare per prendere, in caso di pericolo, le decisioni del caso. Si decise allora di mandare il mio fratello maggiore, il quale accetto a malincuore, diviso tra il senso del dovere e il pensiero di lasciare la moglie ed un bimbo di pochi mesi. Rassicurato, parte.

Come si può immaginare, l’attesa si fa lunga, i minuti non passano mai. Nel frattempo presso amici di contrada c’è una radio dalla quale arrivano notizie preoccupanti: “Il Po non ha mai raggiunto un livello così alto, tutto dipende dalla tenuta degli argini, la piena deve ancora passare, è prevista per la serata, l’esito può essere favorevole se smette di soffiare il vento di Scirocco e l’Adriatico incomincia a tirare, a Melara in Alto Polesine una frana minaccia l’abitato, tutti gli argini sono minacciati dai fontanazzi, occorrono uomini per aiutare le forze preposte dal Signor Prefetto”. Queste e altre le notizie, la radio trasmetteva.

Col passare delle ore si formano dei gruppi di persone di tutte le età.  I più anziani si ricordano o hanno sentito dire della rotta dell’Adige e delle zone più alte non toccate dall’acqua e dei disagi patiti. Nel frattempo sono tornati gli inviati a verificare la situazione sull’argine del Po. Naturalmente il più atteso per me era mio fratello perché le sue notizie erano le più attendibili. Il primo sentimento al suo arrivo è stato il sollievo e poi la curiosità. Trafelato, egli incomincia a raccontare che c’era talmente tanta acqua che scorreva che no si vedeva l’argine dall’altra parte. E’ un effetto ottico dovuto allo scorrere dell’acqua, che increspando, sembra il dorso di un animale impazzito.

Gli operai e i volontari lavoravano senza posa, in silenzio, alcuni riempivano i sacchi di sabbia, altri li accatastavano nei punti in cui l’acqua traboccava o alla bocca dei fontanazzi. Il silenzio era rotto  solo dagli ordini dei responsabili nominati dal Magistrato del Po. I curiosi erano pregati di allontanarsi ma con scarso risultato.

Quando mio fratello constatò che anche lì le notizie erano confuse e frammentarie decise di tornare, rendendosi conto che venire a vedere di persona non era servita a nulla se non a confermare quanto già ipotizzato. L’esito favorevole o sfavorevole dipendeva dal verificarsi degli eventi già menzionati: tenuta degli argini, vento favorevole, ecc.

Tutti volevano interrogare mio fratello, ma la domanda che più mi sconvolse è stata quella di mia mamma. Lei è nata e vissuta in riva al Po e si ricorda di aver sentito storie di gente pagata da agricoltori o industrie dell’altra parte, che venivano traghettati di notte sulla riva opposta  per tagliare gli argini  e far allagare le terre altrui e salvare la propria. A tal domanda, mio fratello non ha saputo rispondere ma era convinto che tutti quegli uomini, che in lontananza sembravano tante formichine, non fossero capaci di atti così brutti. Ma mia mamma scosse la testa.

Avevo solo tredici anni, ma capivo che le prospettive erano tristi. Erano passati solo sei anni dalla fine della guerra che aveva lasciato anche in Polesine lutti e distruzioni. Lentamente si vedevano i primi risultati di una faticosa ricostruzione sia materiale che morale. Per il Polesine povero da sempre, ricco solo di braccia e bocche da sfamare, qualcuno lo chiamava il “sud del nord”, un’alluvione sarebbe stata una catastrofe.

Confusamente, questi erano i pensieri che mi passavano per la testa, ascoltando le notizie che erano via  sempre più brutte. In autunno le giornate si accorciano in modo sempre più rapido, quel poco di sole cala all’orizzonte lasciando posto subito alla notte. In quel momento un lontano altoparlante posto sul tetto di un’auto diffonde il triste e lugubre ritornello: “La situazione si mantiene grave, la popolazione si tenga pronta a sfollare ad un eventuale ordine”. L’auto girava per le vie dei paesi, ripetendo ossessivamente il messaggio sempre più impressionante man mano che la notte calava.

Quello che non potrò mai dimenticare è l’atmosfera che si respirava in quelle ore. Gli uomini si agitavano e non concludevano niente, perfino gli animali erano più docili del solito. Perfino il nostro cane Bill, passatempo di noi bambini, col suo sguardo intelligente partecipava alle ansie della famiglia.

Il compito delle donne e dei bambini era di pregare ed esortare il Buon Do a limitare i castighi che pur meritavamo in quanto poveri peccatori. Il numero di persone che partecipava a questo rito era nutrito essendo la nostra famiglia di tipo patriarcale contadina e c’erano a quel tempo ben venti anime. Non solo le donne e i bambini, ma anche gli uomini, senza farsi vedere, si rivolgevano a Dio, sperando nel suo aiuto.

Alle 9 di sera, arriva la tragica notizia: “IL PO HA ROTTO AD OCCHIOBELLO”.

Per il Polesine e per noi, erano lutti, devastazioni e preoccupazioni a non finire.

Raccolta delle noci

Tanti, tanti anni fa, quando ero bambino, nei mesi di settembre ed ottobre potevo partecipare alla festa dalla raccolta delle noci.

Visto che oggi si fa festa per svariati motivi. Da quella delle fragole, delle mele, delle ciliege, del radicchio, del cavolo, io posso dire di avere preceduto tutti negli anni cinquanta, dunque, primato.

Come si svolgeva! Lo zio Dante qualche giorno prima ci avvertiva che domani si va a raccogliere le noci. Era sempre di Domenica pomeriggio.

I più giovani della famiglia patriarcale, meglio dire delle famiglie, quattro nuclei, con qualche adulto capitanati dal Dante si partiva muniti di scale e lunghi bastoni e naturalmente dei contenitori.

Si arrivava allegri nei pressi del lungo filare, che era il nostro noceto e iniziava la raccolta.

I più svelti salivano sugli alberi, altri con i bastoni, i più piccoli raccoglievano per terra. Se questa non era una festa con che altro nome si poteva chiamare?

Si arrivava a sera con i sacchetti pieni se il raccolto era abbondante. Se no, ci si accontentava. L’importante era avere passato una giornata in allegria.

Tornati a casa stanchi ma felici, assistevamo alla cernita. Le noci normali da una parte, i “nosun” dall’altra. A ogni nucleo famigliare era assegnata la sua parte in proporzione ai componenti, io ero il quarto fratello più papà e mamma, sei. In quei tempi il prodotto era sano, le piante non avevano bisogno di antiparassitari. Oggi se non tratti non produci niente. Forse è per questo che la società odierna è bacata. Scusate la divagazione. Una volta divise, venivano appese di giorno sul balcone di ogni stanza dei nuclei famigliari così che, dopo qualche tempo, si ottenevano frutti croccanti e gustosi. Anche se qualcuno faceva il furbetto del sacchetto, la mamma le distribuiva giorno per giorno. La vita contadina sarà stata grama, ma io spesso la rimpiango. Allora ci si accontentava di poco se la paragoniamo a oggi dove i figli delle “famiglie bene” fanno i delinquenti. Preferisco pensare alla famiglie contadine, quelle sì che erano “famiglie bene”.          

Condizione di vita dei contadini 1945-1955

Premetto che non sono uno storico e quanto leggerete sono ricordi di quando avevo 10-15 anni: quindi spero non me ne vogliate per le inesattezze e le forzature.

Si usciva da una lunga e disastrosa guerra, che aveva lasciato dietro di sé distruzione e miserie. Come sempre chi esce peggio da queste sventure sono i poveri e i deboli, ed una categoria debole erano i contadini. Al mio paese la forza lavoro era composta da una minima parte di operai occupati presso una fornace di mattoni, qualche dipendente pubblico, qualche professionista e qualche commerciante: ma la maggior parte, circa l’85 – 90% trovava sostentamento nel lavoro dei campi. I contadini potevano essere suddivisi in proprietari, fittavoli, mezzadri, coloni o “38” e braccianti.

I proprietari erano la categoria benestante, lavorava la terra di proprietà, possedeva bestiame, attrezzi agricoli e, qualcuno, anche il trattore (il grosso della meccanizzazione si è avuto negli anni 60 e 70).

I fittavoli non possedevano terreni ma li avevano in affitto (la mia famiglia era in questa categoria); il loro tenore di vita era soddisfacente e gestivano l’azienda a loro discrezione. Anch’essi possedevano vacche, cavalli ed attrezzi per lavorare il terreno.

I mezzadri, al mio paese, lavoravano soprattutto nella “tenuta Spaletti”, un vasto podere che copriva almeno la metà dei terreni coltivati della zona. Essi abitavano nei pressi dei terreni che lavoravano, usavano attrezzi ed animali da lavoro di cui, come si intuisce dal loro nome, erano padroni a metà. Non pagavano l’affitto, ma dividevano a metà sia le spese che i ricavi con il proprietario dei terreni. Non pativano la fame, ma il loro tenore di vita era molto basso. Le loro famiglie erano numerose perché c’era la necessità di molte braccia per il lavoro.

I coloni o “38” erano l’ultima categoria di contadini che potevano disporre di terreno sicuro da lavorare. Non possedeva né attrezzi, né animali, partecipavano alle spese e ricevevano il 38% dei ricavi (data la loro scarsa dimestichezza con il far di conto, era per loro difficile fissare le quote di spesa e ricavo, ed il proprietario spesso ne approfittava). La loro era una vita difficile, ma sopportabile.

I braccianti (o compartecipanti), come dice il nome, nel lavoro dei campi mettevano solo le braccia. Questa era la categoria più disagiata e quanto descritto finora serve esclusivamente per focalizzare la loro posizione nel lavoro agricolo.

Erano la maggioranza, il 50-60% degli abitanti della zona. Nelle loro famiglie quasi tutti lavoravano la terra (solo in tempi più recenti i giovani poterono essere avviati ad altri mestieri). Il loro lavoro era precario, nei primi mesi dell’anno veniva assegnato loro della terra in proporzione al numero dei componenti della famiglia (terra da zappa) che veniva coltivata generalmente a mais (che noi chiamavamo granoturco), barbabietole o canapa. A maggio, con la stessa modalità, veniva assegnato una quota di terra coltivata a frumento. Quando il grano era maturo, lo mietevano e lo trebbiavano in collaborazione con il proprietario dei campi. A fine annata agraria potevano prendere per sé una quota del grano, il 38% posto in granaio oppure il 33% posto in “crosetta”. In “crosetta” significa che il bracciante ha partecipato alla sola mietitura, mentre in “granaio” il bracciante ha partecipato anche al trasporto, alla trebbiatura e all’immagazzinamento nel granaio del proprietario

Questo grano e un po’ di soldi ricavati dalla vendita delle quote di mais, di barbabietole e di canapa dovevano soddisfare il fabbisogno della famiglia. I conti li facevano sempre i proprietari: se erano onesti davano il giusto, ma più spesso i braccianti rimanevano gabbati perché a quei tempi erano in pochi a sapere far di conto.

Mi hanno raccontato che un proprietario aveva uno strano modo di fare i conti, quando faceva le operazioni aritmetiche ad alta voce, per essere più credibile, penna alla mano, diceva. “Zero infia zero, zero. Zero infia zero, zero”. “Infia” significa “gonfia” e veniva usato al posto di “per”. Comunque il risultato era sempre zero e un contadino si ribellò replicando: “Al lasa lì da infiar cal zer, se no a m’lo fa sciupar.” Ovvero “La smetta di gonfiar quel zero, so no me lo fa scoppiare”. Un’altra storiella che mi è stata riferita, parlava di un povero padre di famiglia, che a primavera non aveva più niente da dare da mangiare ai figli ed era quindi andato dal proprietario a chiedere del frumento per fare il pane. Al che gli venne proposto l’iniquo contratto “Io ti do un quintalone ora e tu mi restituisci due quintalini alla raccolta dopo la mietitura”. Queste sono storielle ma non molto lontano dalla realtà di quei tempi.

Dal mais e dalla canapa i braccianti potevano ricavare anche i “castlun”, i tutoli delle pannocchie, e gli “stechi”, la parte legnosa della canapa, che potevano bruciare nel camino d’inverno per riscaldarsi. Un ulteriore aiuto veniva dalla quota di giornate di lavoro assegnate ai capifamiglia e ai figli maschi maggiorenni da un’apposita Commissione formata dai rappresentanti delle varie categorie. I proprietari, fittavoli e mezzadri mettevano a disposizione una percentuale di terra adibita a grano o ad altre colture che andava a formare una quota di giornate lavoro sulla terra che la Commissione metteva a disposizione dei braccianti.

Ho scritto che il lavoro dei braccianti è precario, infatti ogni anno non c’era alcuna garanzia di poter andare a lavorare presso lo stesso datore di lavoro, né la disponibilità di terra da zappare o mietere. Se si aggiungeva poi il rischio della siccità o di altre calamità naturali, molte volte non c’era di che dare da mangiare alle numerose bocche in famiglia. Consapevole che il solo lavoro della terra non bastava, ogni famiglia si dava da fare come poteva. Io abitavo ai quei tempi vicino ad un fiume e ricordo bene quanto era importante la pesca: in ogni momento dell’anno, i miei amici e compagni di scuola, nel loro tempo libero, con i loro genitori, si davano un gran da fare con canne da pesca, reti ed altre attrezzature simili: se la pesca lungo il fiume era abbondante si poteva anche ricavare qualcosa con la vendita del pesce ai vicini di casa. Un’altra fonte di guadagno era l’allevamento di oche, anatre e conigli, qualcuno possedeva anche un maiale. Comunque sulla tavola spesso non c’era pane a sufficienza e la carne la si mangiava solo la Domenica. Al posto del vino c’era la “graspia”, una bevanda ottenuta dalla macerazione in acqua delle vinacce (quel che rimaneva dopo aver estratto il vino). Ricordo che io ed i miei cugini scambiavamo il nostro vino buono con la “graspia”, perché piaceva tanto ai bambini, in quanto era più leggera e frizzante.

Al posto del pane c’erano le patate cotte in vario modo, al posto della carne c’erano le uova o i fagioli e a volte nulla. Un grande aiuto arrivava in dicembre quando si poteva macellare il maiale (se non era già stato venduto per pagare i debiti) dal quale si ricavavano i salumi, il lardo e lo strutto. I salumi sostituivano la carne fresca: “Quanto erano buoni i cotechini e la minestra fatta col il brodo di cottura!”, ma forse era solo la fame. Il lardo insaporiva la minestra, con lo strutto si friggeva, si condiva il pane e veniva usato per tanti altri impieghi.

A voi che andate nei centri commerciali e negli ipermercati sembrerà ridicolo, ma ai quei tempi ogni famiglia povera si presentava dal salumiere o dal pizzicagnolo con un libretto. La magra spesa che il capo famiglia od un suo incaricato faceva non poteva essere pagata  subito, (non c’erano soldi), ma veniva registrata in duplice copia sul libretto, uno per ogni famiglia e uno per ciascun commerciante. Un paio di volte all’anno si faceva la somma e si pagava il debito accumulato. Se non si poteva pagare, spesso il negoziante smetteva di fornire merce ed erano guai: i commercianti, nonostante tutto, era una categoria potente e benestante.

A quei tempi erano pochissime le merci confezionate e non di rado si veniva imbrogliati sul peso. Ci si doveva portare da casa i contenitori per l’olio, l’aceto, il petrolio per illuminazione. Il reso e la pasta erano venduti in sacchetti di tela. Per lo zucchero si usava la “carta da zucchero” conosciuta anche oggi per il suo particolare colore.

Credo che siano ormai chiare le condizioni di vita delle famiglie dei braccianti. Nonostante questo, i benestanti dell’epoca li consideravano dei fannulloni e degli attaccabrighe. Ancora oggi mi chiedo come si potesse pretendere dai braccianti un atteggiamento sottomesso data la loro vita di debiti, fame, miseria e sfiducia: arrivare alla fine della giornata era la loro massima aspirazione.

Vi racconto un aneddoto che un mio amico di gioventù mi racconta spesso quando ci incontriamo durante le ferie. Era consuetudine che il pagamento dei braccianti avveniva solo dopo la raccolta, quando si dividevano i prodotti o i soldi ricavati dalla vendita. Solo pochi datori di lavoro anticipavano compensi durante l’anno. Uno di questi era mio padre. Durante le feste natalizie, questo vecchio amico, dopo aver ricevuto alcuni acconti, veniva a casa nostra per ricevere il saldo finale. Quell’anno, carte alla mano, risultò che aveva ricevuto in acconto mille lire in più del dovuto. Ma dopo cinquant’anni, quando mi vede mi ripete sempre la stessa cosa: che a quella notizia egli era caduto nello sconforto, ma che invece mio padre gli disse “Tu dovesti dare mille lire a me. Ma capisco la situazione e sai cosa faccio? Do io invece mille lire a te.”. E che poi corse per tre chilometri fino a casa per consegnare il denaro alla madre e che quell’anno poté festeggiare il Natale come noi. E che si ricorda quel fatto come se fosse ieri ed invece era il 1949.

Data la situazione, le masse contadine incominciarono a far scioperi e a manifestare. Lo sciopero che ho più impresso nella memoria è quello del maggio del 1948: iniziò il 5 e finì il 29. Lo ricordo bene per due motivi. Per prima cosa mi ricordo delle terre incolte e dei raccolti compromessi, dei muggiti delle vacche in stalla che nessuno mungeva.

Ma ricordo anche di un giovane assassinato con un colpo d’arma da fuoco. I fatti si svolsero più o meno così: dopo un paio di settimane di sciopero la situazione si era aggravata e rischiava di precipitare: nelle stalle il bestiame veniva alimentato di nascosto dai cosiddetti “crumiri” e per impedirlo gli scioperanti avevano istituito ronde e picchetti. Bastava una scintilla per far scoppiare il fuoco. Spesso interveniva la “Celere” (una squadra di pronto intervento della Polizia nota per la sua brutalità), con conseguenti scontri, manganellate ed arresti. Una sera si diffuse la voce che gli scioperanti avevano preso in ostaggio alcuni agenti di Polizia. Gli scioperanti dalla campagna e le squadre di Polizia si precipitarono in paese in un caos infernale nel mezzo del quale si udirono degli spari ed un giovane di nome Evelino Tosarello cadde morto. La giornata si sarebbe conclusa in modo ancor più tragico se l’allora Monsignore Don Graziano Lucchiari, chiamato ad amministrare gli ultimi conforti religiosi, non fosse riuscito a calmare gli animi. Recandosi all’ospedale, passando in mezzo alla folla inferocita, forte del prestigio e del rispetto che i paesani gli tributavano, richiamò tutti al dovere, di fronte alla morte, di sentirsi fratelli.

Avevo solo dieci anni ed il fatto mi colpì molto, e ancora adesso mi chiedo perché deve sempre morire qualcuno prima che si risolvano i problemi.

Seguirono altri scioperi, venne l’alluvione del Polesine nel 1951, la miseria crebbe e molte famiglie dovettero emigrare verso la Lombardia ed il Piemonte. I paesi si spopolarono, il mio passò da 8000 abitanti a circa 3000. Si diceva che il Po, rompendo gli argini, ha portato l’acqua al mare ed i Polesani in Piemonte.

Per chi è emigrato, i primi momenti sono stati duri, c’era il lavoro ma non c’erano le abitazioni, c’era difficoltà di inserimento e nostalgia per la terra lasciata. Ma ne è valsa la pena, alcuni miei amici d’infanzia hanno comprato l’appartamento, hanno fatto studiare i figli, si sono presi i loro meritati periodi di vacanza. Quando partirono, erano considerati fannulloni e straccioni, ma con la loro forza di volontà ed il ritrovato entusiasmo, hanno contribuito al miracolo economico degli anni ’60. Sono partiti piangendo, ora tornano con i capelli bianchi ma con la consapevolezza di chi si è realizzato.

Sento il dovere di ringraziarli perché con la loro partenza hanno consentito anche a chi è rimasto di vivere e migliorare. Loro hanno avuto coraggio e hanno capito che la terra Polesana era troppa piccola e avara per sfamare tutti.

 La famiglia di braccianti nel 1942
 La stessa famiglia nel 1964 emigrata a Milano nei primi anni 50.

Vita contadina – Ricordi d’infanzia

Questi ricordi perché siano più comprensibili, a chi ha la compiacenza di leggerli, hanno bisogno che siano precisate alcune cose. Essendo passati multi anni, questi ricordi possono essere lacunosi, inoltre non vogliono essere storia, ma memoria, troverete alcune parole in dialetto, questo per dare più sapore e genuinità alla narrazione, per molti quello che vado raccontando sembrerà non reale, fantascienza, invece è la fotografia di come era la vita contadina in quel periodo, fino gli anni cinquanta-sessanta. La vita rurale ha sempre avuto dei tempi precisi e ripetitivi. Se sembrerà strano come inizio questa narrazione, devo dire che il motivo è quello di  capirla meglio e quindi é necessario incominciare dai lavori di fine estate- autunno,il ciclo dei lavori nei campi non inizia con la semina, ma per ottenere buoni raccolti é necessario preparare bene il terreno,in autunno, che poi i ghiacci invernali provvederanno a sterilizzare e renderlo pronto per ricevere le sementi in primavera.

Concimazione

Prima di provvedere ad arare il terreno era necessario concimare. Se pensiamo che i concimi chimici hanno avuto la loro diffusione su larga scala solo nel dopo guerra, l’unico concime a disposizione era il letame. Ogni azienda agricola, oltre la casa colonica, magazzini, aia, aveva la stalla per il ricovero degli animali. Per lo più buoi e cavalli che con i loro escrementi producevano letame che veniva ammassato nel letamaio ovvero il “lodamaro”. Se ben ammassato dopo un anno risultava un ottimo concime organico, indispensabile per il terreno. A fine estate si provvedeva a spargerlo sui campi liberati dai raccolti. In mancanza dei trattori (che sono arrivati più tardi) gli unici mezzi a disposizione erano carri a quattro e due ruote, carretti o “borozze”, trainati da buoi o cavalli. Il letame, una volta caricato, veniva portato nel campo, si formavano dei cumuli “motte”che poi venivano sparsi sul terreno in modo uniforme. Chi effettuava questi lavori non aveva a disposizione stivali di gomma o tute o guanti ma lavorava a mani e piedi nudi.

Perché la concimazione fosse efficace era necessario provvedere ad arare il terreno il più presto possibile, per evitare l’essiccazione del letame ed eliminare l’odore non proprio salubre che esso emanava.

Arratura

Già sappiamo che la motorizzazione è venuta dopo mentre prima solo poche grosse aziende erano in possesso di trattori e per lo più erano macchine a vapore.

La maggioranza delle aziende facevano uso dei buoi per l’aratura. L’operazione si svolgeva in questo modo, i buoi erano aggiogati a coppie compatibili, fatti uscire dalla stalla, messi in fila davanti all’aratro. Le coppie venivano collegate una all’altra attraverso un palo di legno duro che chiamavamo “zarla”. Il collegamento veniva da giogo a giogo, ogni coppia era dotata di una “cavezza”, una corda che serviva al conducente se ve ne fosse stato bisogno. Ma erano talmente addestrate che solitamente bastava la voce. Questa fila che noi chiamavamo “tiro”, poteva essere composta da quattro, cinque o sei coppie, dipendeva dalla disponibilità che aveva l’azienda.

La coppia capofila era sempre la più intelligente e rispondeva sempre ai comandi del bovaro. La coppia più forte era agganciata al timone dell’aratro. Le coppie davanti, alla fine dei solchi, venivano chiamate, rallentavano e girava a destra se veniva detto “to”o a sinistra se vaniva gridato “ei”. Invece la coppia al timone, mentre le altre giravano, rimaneva da sola a tirare l’aratro. Questa coppia era spesso formata da buoi maschi.

Gli uomini impiegati era due. Quello che dirigeva armato di “scuria” frusta, che adoperava raramente ed un  secondo attento al “varsuro”, aratro.

Il ricordo di queste scene, queste lunghe file di buoi così disciplinati che ubbidivano ai comandi alternati da cantilene, mi conferma che sia l’uomo che gli animali sono creature di Dio.

Quando gli immigranti eravamo noi

Mi presento, sono uno di quelli che negli anni cinquanta è dovuto partire da un paesino del Polesine. In quei tempi si diceva che la provincia di Rovigo era il sud del nord, per certi versi lo è ancora.

Avevo sentito dire che nel triangolo Milano, Torino, Genova, si poteva trovare lavoro. Prima, nel 1951, l’alluvione, poi gli scioperi hanno aggiunto miseria a miseria.

Ero il settimo di otto figli, le condizioni della mia famiglia erano disastrose, si doveva vivere dei soldi del poco lavoro che mio padre e il fratello maggiore prendevano come lavoratori stagionali. I lavori ai quali ci si poteva affidare erano quelli agricoli, stagione permettendo.

Confortato dai miei genitori, a malincuore, decisi di andare a cercare fortuna. Loro mi dicevano:  “Se non ce la fai tu, che sei il più capace, nessuno di noi potrà farcela”.

Messi insieme i pochi indumenti decenti, i pochi articoli per la pulizia personale, un po’ di pane e una “brazadela”, fatta con amore dalla mia mamma, accuratamente infilati nella valigia di cartone legata con lo spago, mi accinsi a partire.

Dopo avere fatto il biglietti di terza classe, circondato dai famigliari prodighi di consigli, attesi il treno. Confesso che era la seconda volta che prendevo un treno, la prima era stata per andare  afare il militare a Persano, bassa Italia. Alla piccola stazione del mio paese il treno si fermava solo un attimo, per recuperare il ritardo endemico. Ultimi saluti e via. Dire che era un treno da terzo mondo è dire poco: faceva un fumo infernale, specialmente quando riprendeva la marcia. In terza classe i sedili erano di legno, la pulizia lasciava desiderare, specialmente nelle latrine, mi sono detto ”Incominciamo bene”. Questa lumaca non solo si fermava nelle stazioni grandi ma anche in quelle piccole. Si potevano vedere passeggeri di ogni sorta, maestri, impiegati, tante donne con le ceste piene di uova che si recavano al mercato. Ho notato di quelle che in apposite ceste di vimini avevano conigli, galline, cavoli. Con il caldo che faceva, eravamo alla fine di luglio, la puzza era nauseante. Per fortuna ad una fermata queste donne e i professionisti scesero, la calca si diradò e il treno riprese il suo lento viaggio. Arrivati a Verona scesi anch’io, presi la mia valigia e mi avviai verso il binario per prendere il treno per Milano-Torino. Altra sorpresa, l’altoparlante gracchiando annunciò che il treno proveniente da Venezia aveva cinquanta minuti di ritardo.

Rassegnato mi sedetti su una panchina, questa volta di marmo. Aveva il vantaggio che era fresca.

Mentre stavo asciugandomi il sudore, mi accinsi a mangiare un boccone. I morsi della fame incominciavano farsi sentire. Era da più di due giorni che non mangiavo, sia a causa di un’infiammazione alla gengive che non mi permetteva di masticare sia per la preoccupazione che mi dava la partenza. Per uno che ha poco più di venti anni la cosa era seria.

Mentre mi preparavo a mangiare, notai che in stazione entrava un corteo, con bandiere, tamburi, gridavano slogan: “Ferrovie di Stato, ci avete incastrato”, “Governo vigliacco, ce l’hai messa nel sacco”. Erano i partecipanti ad uno sciopero indetto dai ferrovieri. Il fracasso infernale e la ressa che ne seguì mi obbligarono a spostarmi. Maledizione, non l’avessi mai fatto. Quando tornai sui miei passi la mia misera valigia era sparita.

Quando Dio volle il treno entrò in stazione. La folla che scendeva malediceva per il ritardo e quella che voleva salire per trovare un posto a sedere, creava un caos infernale.

Fu in quel momento che mi sentii prendere per un braccio, era un donna molto robusta, che poteva essere mia sorella maggiore, si fece largo, con le belle e brutte maniere e mi fece salire solo in tempo per trovare due posti liberi, uno di fronte all’altro. Non  mi restò altro che ringraziala. Il treno riprese la sua marcia. Non che fosse tanto migliore del primo.

Nello scompartimento tutti badavano ai fatti loro, io pensavo alla mia povera valigia, alla “brazadela” che mi poteva sfamare. Il caldo torrido era mitigato dall’aria che entrava dai finestrini semi aperti. Le poche parole pronunciate dalla signora che mi aveva aiutato e che mi stava seduta di fronte, furono per chiedermi dove fossi diretto. Ricevuta la risposta, tutto tornò tranquillo. Tranquillo per modo di dire. Sia lo sferragliare che il fumo che entrava dai finestrini, la situazione tranquilla non era. Tra l’altro fui indotto a notare che la signora era tutta sudata e si contorceva dalla smania.

Quando ci si mette la iella non la smette più e, dopo uno scossone, il treno si fermò. Tutti ci chiedemmo cosa fosse successo. Il controllore a squarciagola sbraitava “Il treno ha investito un carrettino trainato da un asino, il contadino che si trovava sul coccio è rimasto ferito, chi vuole può scendere”.

Volentieri accettammo l’invito, il vagone era una bolgia, il tetto bruciava sotto il sole di quel pomeriggio di luglio.  Per ripararci dal caldo afoso ci sedemmo sotto ad un albero.

La buona signora mi confidò che era diretta a Torino dove l’aspettava un bambino di tre mesi. Lei faceva la balia di professione. Era una montanara, veniva da un paesino del Trentino.

Aveva avuto sette figli e l’ultimo l’aveva da poco svezzato. Oltre al latte per i suoi bambini, ne aveva a sufficienza per nutrirne anche un secondo e le altre mamme, che non potevano allattare i propri bambini, le affidavano i propri. Era conosciuta in tutta la zona. Naturalmente per le sue prestazioni era retribuita sia in danaro che in generi alimentari. Anche nella sua zona non si nuotava nell’abbondanza. Per ora erano stati sette bambini e sei figliocci e stava per raggiungere il settimo.  A questo proposito mi mostrò le foto dei figliocci prima e dopo che lei li allattasse. Dalle foto si poteva notare la differenza, prima gracili, poi paffuti.

Una sua conoscente, trasferitasi a Torino per lavoro, aveva raggiunto una certa agiatezza e le scrisse che il bambino che le era nato da poco se lo sarebbe allattato da se per i primi tre mesi. Ma per non perdere la linea chiedeva alla balia se lo poteva per favore continuare ad allattare. Ma c’era un’altra richiesta. Era necessario che la signora venisse a Torino per il tempo necessario. Sarebbe stata ospitata e ben retribuita. Dopo averci pensato per bene, in comune accordo col marito e i figli, accettò l’incarico.

Come ho già detto si poteva vedere che soffriva non solo per il caldo. Istintivamente sbottonò il corsetto, tutto ricamato. Si intravedevano i due turgidi seni. Capii che non essendo stati svuotati dal giorno prima le davano un enorme fastidio. Lei si torceva dallo spasimo, io dalla fame. Istintivamente mi disse “Figliolo vuoi mangiare”. Ci appartammo, si tolse il corsetto, mi si presentarono davanti due poppe, che per essere troppo piene, i capezzoli gocciolavano. Mi prese tra le braccia come un bambino, mi misi succhiare avidamente, prima quella desta poi quella sinistra, mi sentivo rinascere. Lei smise di sudare, io non sentivo più i morsi della fame.

Tutte e due tirammo un sospiro di sollievo, io per il pasto gratuito, lei per essersi liberata dal peso che la opprimeva. Una voce stridula cominciò a gridare: “In carrozza, si parte”.

Lei mi prese per mano, dicendomi: “Vieni figliuolo”. Ci sedemmo tutti al nostro posto. Il viaggio riprese, il treno non sembrava più quello di prima, tanto era comodo.

Lei scese a Torino, io proseguii per Ivrea, prima di scendere mi baciò in fonte, dicendomi:
 “Buona fortuna”. Io con le lacrime agli occhi, le disse: “Grazie mamma”.

A distanza di anni il rimpianto più grosso è quello di non averle chiesto l’indirizzo. Però il ricordo di quella avventura, quando ci penso, mi commuovo ancora.

Ora ho ottantenni e quando vedo certe donne con i seni al vento, mi imbarazzano. Ma in quel frangente il sesso non fece minimamente la sua comparsa.

L’augurio ebbe buon esito, trovai un buon lavoro. Mi sposai con una bella fanciulla che mi dette tre figli. Con il tempo mi raggiunsero i miei famigliari e ci sistemammo tutti, col rammarico che al vecchio paese le cose non sono ancora cambiate.

L’uomo del fiume

Come nella maggior parte dei paesi del Polesine le condizioni della popolazione erano precarie.

A poche famiglie benestanti e a un piccolo numero di medie condizioni, si contrapponevano una maggioranza di famiglie povere. Questa situazione cambiò a partire dagli anni cinquanta a causa della forte emigrazione che la popolazione di questi paesi dovette subire, per cercare lavoro e migliori condizioni di vita. Questo avvenne anche nella mia comunità, dal 1951 dopo la rotta del Po, al 1960 dimezzando la popolazione. E’ in questo contesto che si ambienta il mio racconto. A poca distanza da dove abitavo, si trovava un lungo caseggiato occupato da un certo numero di famiglie, le quali, per sopravvivere e per arrotondare i magri introiti provenienti da un po’ di terra di loro proprietà e dal salario per qualche periodo di lavoro prestato, “si industriavano” ed erano costretti nei ritagli di tempo libero a dedicarsi alla pesca.                          

Abitando sulle rive del fiume Tartaro veniva naturale dedicarsi a questa attività.

Di personaggi e episodi da raccontare ne avrei tanti, quello però che mi pare il più interessante è il personaggio che chiameremo per rispetto alla sua memoria, il pescatore, o meglio “l’uomo del fiume”. La sua famiglia era composta da quattro persone: papà, mamma, e due figli, un maschio e una femmina. Era una brava persona, almeno fino a quando il vino non gli annebbiava il cervello avendo il vizio del bere. Il vino lo produceva nel suo piccolo podere, era in prevalenza “bacò”, perché era la prima uva che veniva a maturazione e “clinton”uva che dava un vino saporito e corposo.

Il fenomeno era di poca durata perché le scorte si esaurivano in poco tempo. Ma essendo fine estate, inizio autunno, uno dei periodi più propizi per la pesca, non vi era giorno che il nostro amico salisse in barca più o meno alticcio. Come si può capire, se uno prende la “balla” e poi va a letto poco male, ma andare in barca è pericoloso. Lo si vedeva barcollare, ma nessuno lo ha mai visto cadere in acqua. Il nostro amico passava diverse ore in barca, non per niente lo chiamo il “pescatore”

Di questo mestiere conosceva tutti i segreti; dai tratti più pescosi ai modi più idonei per avere buoni risultati: solo in rarissimi casi tornava a casa con le ceste vuote. Si costruiva da solo gli attrezzi del mestiere con una tale abilità e maestria da fare meraviglia.

Nelle varie ore del giorno lo potevi vedere condurre la sua barca nei punti stabiliti per posizionare i “reun” e le “nasce”che gli permettevano di fare pescate abbondanti.

Nel pomeriggio inoltrato, fino a sera, collocava le “arti”. Da notare che aveva un sistema tutto suo per rintracciare le “arti” e per non farle scoprire da eventuali furbastri. Un giorno alla mia domanda come si regolasse mi disse “caro al me curioso a ne poso dirtlo, ma a te devi savere ca no mai perso gnanca un cordin”.

Alle prime luci dell’alba, come in un rito, allacciato il grembiule di tela cerata e sistemata l’attrezzatura partiva a ispezionare e ricuperare l’eventuale bottino.

Come tutti gli artisti, non infieriva mai contro le prede, ma con delicatezza estraeva dalle reti il pesce e poi lo deponeva nell’apposito vano che si trovava tra prua e poppa della barca, sotto il tavolato, provvisto di una quantità d’acqua sufficiente perché il pescato sopravvivesse.

Una volta tornato a riva prelevava il pesce e lo metteva nel “burcio”, un contenitore immerso nell’acqua e lì rimaneva fino a quando qualche cliente o rivenditore ne faceva richiesta.  

Quante volte mia mamma mi ha comandato “Va dal pescatore a prendere il pesce, lui sa quale deve darti”, naturalmente il migliore. Il rito si ripeteva ogni venerdì e nei giorni di “vigilia” ovvero i giorni comandati di mangiare di magro.  Era un mangiare di magro da leccarsi i baffi.

Un curioso come me cosa poteva fare? Interrogarlo, fargli delle domande sul suo passato, lui mi rispondeva sempre cordialmente, escluso alle domande che guardavano i segreti del suo mestiere. Il ritratto che ne veniva fuori era quello di un uomo dotato di una discreta intelligenza, che aveva tanto sofferto, prima, durante la guerra del 15-18, poi per le difficoltà economiche e incomprensioni in famiglia, dovute al suo carattere forte. Tutto questo lo ha portato a cercare conforto nel bere.  Mi diceva “so che il vin le la me ruina ma a ne posso far de  manco”.

I consigli per quanto buoni non servivano a niente.

Col passare del tempo, con la diminuzione delle forze la situazione peggiorava di giorno in giorno.

I figli si sposarono, rimase vedovo e poi il colpo finale, i lavori per rendere navigabile il fiume distrussero il suo Tartaro. Da fiume pieno di vita lo trasformarono in cloaca, la sua acqua da pulita e bevibile divenne torbida e putrida. Senza più nessun scopo, finì i suoi ultimi anni nell’abbandono più assoluto. Se la sua casa prima era povera ma pulita, poi e diventata una topaia, non voleva vedere più nessuno. Questo è il destino dei poveri cristi. Lo avrete capito che questo personaggio lo ricordo volentieri: prima perché fa parte della mia giovinezza e poi per il rammarico di non aver potuto fare niente per aiutarlo. Quante di queste persone si riducono così per colpa della miseria, del disagio e dell’abbandono da parte della società cosiddetta “per bene”? Una cosa è sicura, per me e per chi lo ha conosciuto, resterà per sempre “L’uomo del fiume”.     

La bella Carmela, la tragedia dal Giaron

Se vi chiedo chi di voi sa cosa era “Al Giaron” che c’era al ponte di Trecenta? Solo in pochi sanno rispondermi, solo i più anziani.

Allora vi racconto una storia, finita in tragedia, con sullo sfondo la ghiaia del “Giaron”. Negli anni sessanta il corso del fiume Tartaro venne deviato, per renderlo navigabile. Come molte realizzazioni di un certo rilievo,vuoi per la burocrazia, vuoi per negligenza, occorsero molti anni per essere completata. La parte principale dell’opera fu realizzata in tre o quattro anni, ma lungo il fiume, solo recentemente si vedono transitare bettoline che trasportano petrolio, e solo in questi giorni si sta realizzando un attracco per piccoli natanti. Anche a Trecenta. Meglio tardi che mai.

Mentre osservavo i lavori in corso mi sono ricordato di un grave fatto successo negli anni quaranta, l’annegamento della bella Carmela. Il teatro della tragedia si può solo ricordarlo, il luogo dove è successo non esiste più. Se transitate in periferia di Trecenta dal lato nord verso Badia Polesine, per capirci, troverete il ponte sul nuovo corso del fiume, ma se siete distratti non vi sarete accorti di avere attraversato il ponte vecchio, ora interrato. Questo è quello che ci interessa.

Prima di essere interrato, il canale aveva a monte del corso una spiaggia ghiaiosa, “Al giaron”. Si era formato nel corso degli anni, quando in questo luogo era scaricata la ghiaia che arrivava a bordo di grossi barconi, utilizzata per l’edilizia e, soprattutto, per fare le strade. E la bella Carmela?

Quando questo non avveniva, la spiaggia era invasa da decine di lavandaie.

La lavatrice in quei tempi era impensabile, pochissime le abitazioni erano provviste di luce elettrica. La prima fase del bucato veniva fatto in un locale chiamato “lisciara”. Da notare che parte del bucato, così detto grosso, era fatto poche volte l’anno.

I detersivi non esistevano ed al suo posto si usava la lisciva, la “liscia”. Come era fatta? Con la cenere.

Andiamo per ordine, prima il prelavaggio, che consisteva nello strofinare i panni con acqua e sapone e “onto de gomito”. Il sapone che usiamo oggi se lo poteva permettere solo i signori, gli altri adoperavano quello fatto in casa fatto con i semi di ricino, scarti della macellazione del maiale e soda. Finita l’operazione si deponevano i panni nel “mastello da bugà”. La lisciva si faceva prima, setacciando la cenere e, quando l’acqua nel grande paiolo bolliva, si buttava la cenere  sopra il telo che copriva la biancheria da lavare, il “bugadoro”, il quale filtrata la lisciva, rendendola limpida. Dopo qualche ora la biancheria aveva bisogno solo del risacquo.

Si andava al canale, primo perché l’acqua necessaria era tanta, e poi perché nelle zone basse del paese l’acqua era gialla e quindi non adatta al risciacquo, “non rendeva il bucato bianco”

Allora ecco, che di buon mattino, con tutti i mezzi ci si recava al “giaron” dove l’acqua era talmente limpida che si poteva berla. Specialmente in certi periodi dell’anno quando i lavori non urgevano potevi vedere: donne con la loro carriola carica di panni da sciacquare, carretti, e perfino carri trainati da buoi. Questi ultimi venivano dalla Tenuta Spaletti. Se quelli spinti a mano richiedevano fatica, i carri trainati erano uno spettacolo, perché oltre alle ceste di vimini colme di panni, erano carichi di banche da lavare, e di donne sedute con le gambe a “penzolon” e anche se le sottane erano lunghe, qualcosa si poteva intravedere. Spesso cantavano a squarciagola, cori che oggi li sogniamo. Abbiate pazienza arriva anche la bella Carmela.

Le prime che arrivavano meglio alloggiavano, perché i primi posti occupati erano quelli a monte, per un motivo evidente, l’acqua era più pulita, nessuno o pochi la insaponava, per le altre niente di grave, bastava poco tempo perché l’acqua tornasse limpida.

Intanto i mariti una volta messe all’opera le proprie mogli e provveduto a dare il fieno ai mezzi di locomozione (le vacche) si recavano a bere un “gòzo” de vin da Castlan o alla Nave.  

Potete immaginare la confusione, canti e frizzi. Molto staccata dalle altre, quasi sotto il ponte, ecco arrivava Carmela, una bella donna, elegante, ben curata, ma sola.

Come arrivava i canti cessavano, il mormorio cresceva, un orecchio attento poteva sentire: “Guarda la sfacciata la ne se vergogna gnanca” oppure “Che muso cla ga”.

Di sicuro si sapeva che il marito era stato dichiarato disperso in Russia, erano gli anni del dopo guerra, i pettegolezzi riguardavano invece ad una sua presunta avventura con un noto cittadino di Trecenta. Se ci fermiamo ai pettegolezzi il giudizio malevolo è facile, ma la Carmela di sfortuna ne ha avuta tanta. Orfana di genitori a dieci anni, gli zii adottivi molto severi con lei, molto meno con i propri figli. A diciassette anni si sposa, più per la situazione triste che per amore. Tanto che aveva ottenuto dal futuro sposo la promessa di consumare il matrimonio al compimento del diciottesimo anno. La malasorte non si accontenta, lo sposo fu richiamato militare col grado di caporale, e subito avviato sul fronte Russo. Era il 1942 quando ricevette l’ultima lettera, poi più niente. Sola, senza amicizie, trascorse tre anni di stenti ed intanto la guerra finisce. Al distretto militare dove si reca per avere notizie le viene risposto, che dopo la battaglia del Don non hanno avuto più notizie, quindi viene dichiarato “disperso”. Senza appoggi, senza sussidi, disperata, accetta di impiegarsi come dama di compagnia di una signora facoltosa del luogo, la quale ha un figlio con la fama di “sciupa femmine”. Carmela a soli ventuno anni, rifiorisce, smette il lutto, e incominciano i pettegolezzi.

Il paese è piccolo, la gente mormora, dice il proverbio. La signora, mamma “timorata”, licenzia Carmela. Di nuovo disperazione, i guai non finiscono mai. Cosa le resta da fare se non la lavandaia per i “signori” di Trecenta? Le malelingue la bersagliano senza pietà. Come abbiamo detto il suo posto al “giaron” era quasi sotto il ponte, lontana dalle boccacce, ma nello stesso tempo era presa di mira da alcuni ragazzi che si tuffavano dal ponte, uno si chiamava “Anco”, diminutivo di Franco. Gli spruzzi la investivano, la inzuppavano, le pettegole sghignazzavano e la nostra Carmela tornava a casa sempre più avvilita.

Era un venerdì 17, la scena sempre quella, le pettegole blaterano. Ad un tratto un grido viene dai ragazzi sul ponte “la Carmela, la Carmela”. Tutti corrono, ma la corrente la inghiotte. Fu ripescata tre giorni dopo, a due chilometri di distanza, in località Cà Variana, dove abitavo in quegli anni. Ho assistito al ritrovamento, aveva in mano la foto di suo marito.

La signora “Timorata” e suo figlio (che si è saputo dopo era gay, “culaton” in quei tempi) vollero ed ottennero che il corpo della sventurata fosse sottoposto ad autopsia. Udite, udite! Carmela era vergine, noi sappiamo del patto che aveva con il suo amato marito. Le pettegole hanno avuto il loro ben d’affare a cospargersi il capo di cenere.

Ospedale S. Luca

Da tutte le parti come una litania,
senti dire che la sanità è da gettar via.
Noi di Trecenta diciamo: buttarla via, ma non proprio tutta, 
noi siamo stati fortunati, abbiamo l’Ospedale dedicato a S. Luca.
Cercando il pelo nell’uovo neanche qua tutto è perfetto,
e si può trovare più di qualche difetto.
Per esempio non hanno badato a spese,
lo hanno dotato di ben tre chiese.
San Luca non me ne volere, deve ci sei Tu e Nostro Signore,
qualsiasi edificio ha un grande valore.
Però l’ultima che ti hanno dedicato guardandola mi confonde,
sembra di essere tornati ai tempi bui delle Catacombe.
San Luca mi risponde: “Hai ragione un bilancio più oculato,
sarebbe di grande vantaggio anche per il malato”.
Altro difetto, quando aspettando il tuo turno seduto in “scarana”,
il tuo occhio attento vede una cosa strana.
Vedi tante impiegate per i corridoi a gironzolare,
danno l’impressione che abbiano poco da fare.
Con le loro mini sottane all’ultima moda, 
 ti vien da dire: “Perbacco, guarda che roba”.
Accontentano l’occhio del paziente che è un piacere,
ma pensi: non ne potrebbero bastare di meno e aumentare le infermiere!
Si, dico questo, perché negli ambulatori di riabilitazione, 
poche infermiere trafelate tengono a bada la situazione.
Una lancia va spezzata a loro favore, 
e penso che un complimento non potrà che farle onore.
Le note positive, a meno che uno non sia un incontentabile,
le troviamo nel lavoro dei Medici che è encomiabile.  
Tutti i reparti e i laboratori, 
lavorano egregiamente in barba ai detrattori.
Il fiore all’occhiello è il centro trasfusione,
Dottori, infermieri e donatori che siano i migliori è fuori discussione.
Con orgoglio lo dico da donatore,
la cosa a noi tutti non può che fare onore.
Se gli altri non sono d’accordo del giudizio qui dato,
pazienza, è il giudizio di un avvisino sfegatato.
Scherzi a parte diamoci tutti da fare in modo leale,
perché il nostro diventi il migliore Ospedale.
E perché il nostro sforzo non fallisca,
preghiamo il nostro protettore S. Luca  Evangelista.

Il Fiume Tartaro

Amico fiume della mia gioventù

Bello quando mi specchiavo nelle tue acque limpide.

Caro al mio cuore di bambino.

Davi alimento a pesci, sfamavi branchi di oche e anatre e le mucche si abbeveravano.

Era uno spettacolo, oggi morirebbero avvelenate.

Fratello fiume come ti hanno ridotto, e pensare che un tempo le tue acque erano così limpide che si  potevano vedere i pesci nuotare sul fondo .

Guardare i pescatori con le loro barche era uno spettacolo, le loro movenze erano così leggere, ma la durezza la si leggeva nei loro volti e spesso il bottino era scarso.                                         

Humus fertile diventavano le tue alghe tagliate dalle draghe, quando erano in vita sembravano verdi stelle filanti accarezzate dalle onde.

Incontaminate erano le tue acque tanto che l’uomo poteva dissetarsi

Le lavandaie sciacquavano i panni senza inquinarti.

Maestoso eri in primavera e in autunno quando le piogge ti alimentavano.

Nel periodo estivo diventavi il nostro mare la nostra spiaggia.

Ora l’uomo in nome del progresso ti ha trasformato in una fogna, una cloaca.

Però io con la fantasia m’illudo e ti vedo come il caro amico di un tempo.

Quante ore ho sguazzato nelle tue acque, sbirciando lussuriosamente il costume adamitico delle mie coetanee.

Rincorrersi e giocare presso le tue rive era il mio passatempo preferito.

Spesso coppiette imberbi si nascondevano, disertando le attività collettive e riapparivano a noi a giochi fatti.

Tartaro, transitare lungo i sentieri erbosi e alberati delle tue rive, ci permetteva di tornare a casa da scuola scalzi e al riparo della calura estiva.

Ucciso dall’incuria dell’uomo scorri verso il mare a testa bassa.

Vederti ora: torbido, limaccioso, puzzolente. Mi chiedo se il futuro ci riserva progresso o morte.

Zero è il voto che meritiamo, che merito per avere permesso pur amandoti la tua agonia.

La chiesetta scomparsa

Se ha scomparire è una cosa brutta o di poca importanza il guaio è leggero,  anche se sempre guaio rimane. Ma se a scomparire è un gioiello, lascia l’amaro in bocca per non dire sconcerto.

Con la scusa di dare un aspetto più moderno e funzionale all’insieme dei fabbricati che costituivano l’opera “Casa S. Antonio”alcuni sventurati pensarono bene di demolire la Chiesetta dedicata alla Beata Vergine di Lourdes e la vicina casa canonica, nella massima indifferenza da parte dei cittadini di Trecenta. Solo con il passare del tempo si è capito di quale gioiello la comunità è stata privata.

Nel 1908 fece visita a Trecenta un sacerdote conoscitore dei problemi che colpivano i più poveri, gli orfani e i vecchi. Si chiamava Don Luigi Guanella. In quel periodo (1902-1913) era Arciprete di Trecenta Mons. Ugo Cappello, suo amico e collaboratore. Gia nel 1899 il Monsignore aiutò Don Luigi a far nascere a Fratta Polesine una casa della sua opera. Il Beato si era reso conto che anche a Trecenta le condizioni di vita erano precarie e, con l’aiuto dall’Arciprete e dal lascito fatto con testamento dalla Signora Colognesi Amalia in Maggioni del Palazzo Cremonesi (ora abitazione dei signori Maghini e Bianchini), diede inizio alla sua opera.

L’Opera era sorta come asilo infantile e oratorio festivo ed ha trovato come prima sede appunto l’edificio donato dalla Signora Cologhesi. “Solo in un secondo momento, con l’aiuto del Signore che non l’aveva mai abbandonato, la provvidenza gli fece incontrare il signor Tullio Bellini, il quale lo aiutò a realizzare il sogno che da tempo accarezzava, quello di realizzare un’opera grandiosa per quei tempi, il Bellini le fece dono di una vasta area nei pressi della sua prima casa, su cui furono costruiti i locali della casa di ricovero e quelli per alloggiare le orfanelle” (dalla biografia su  Don Guanella di Vasco Lucarelli).

Come sappiamo l’opera fu chiamata Casa S. Antonio e fu affidata alle Figlie di Santa Maria della Provvidenza, ordine fondato dal Beato Luigi Guanella. L’inaugurazione dell’opera intera avvenne poi l’11 febbraio 1912.

Il complesso era costituito da un edificio a due piani, tuttora esistente anche se ristrutturato, che ospitava le aule e le camerate per i vecchi e le orfanelle e i servizi, un secondo edificio più piccolo, addebito ad asilo, la casa del benefattore che serviva anche da canonica e da una bellissima chiesetta. L’edificio sacro era dedicato alla Beata Vergine di Lourdes, che si festeggia l’11 febbraio  (per i Trecentani la “Madonna del sior Tullio”). Nella sua semplicità la chiesetta era unica, composta da una sola navata. Già come si entrava si era colti da una sensazione di pace e di  letizia, sullo sfondo dopo il presbiterio e l’altare, trovava posto una bella grotta, copia di quella di Lourdes.

Non potrò mai dimenticare la prima volta che, accompagnato da mia mamma, la visitai. Eravamo pochi giorni prima dalla Festa dedica alla Madonna, alle sue pareti erano appesi stendardi e bandiere tutti gli altari addobbati. La grotta era illuminata da centinaia di ceri votivi e  al posto d’onore vicino all’Altare Maggiore la statua della Madonna. Un vero Paradiso, per quelli che come me, questo gioiello se lo ricordano e sapere che è stato distrutto mette malinconia. Se poi verifichiamo che è stato sostituito da un edificio tozzo e freddo, lo sconforto e il dolore cresce. Perdonami Beata Vergine se parlo così della Tua nuova casa.

Per rispetto dei donatori, per l’affetto dei devoti, per la devozione alla Madonna, questo gioiello doveva essere salvato!