Come nella maggior parte dei paesi del Polesine le condizioni della popolazione erano precarie.
A poche famiglie benestanti e a un piccolo numero di medie condizioni, si contrapponevano una maggioranza di famiglie povere. Questa situazione cambiò a partire dagli anni cinquanta a causa della forte emigrazione che la popolazione di questi paesi dovette subire, per cercare lavoro e migliori condizioni di vita. Questo avvenne anche nella mia comunità, dal 1951 dopo la rotta del Po, al 1960 dimezzando la popolazione. E’ in questo contesto che si ambienta il mio racconto. A poca distanza da dove abitavo, si trovava un lungo caseggiato occupato da un certo numero di famiglie, le quali, per sopravvivere e per arrotondare i magri introiti provenienti da un po’ di terra di loro proprietà e dal salario per qualche periodo di lavoro prestato, “si industriavano” ed erano costretti nei ritagli di tempo libero a dedicarsi alla pesca.
Abitando sulle rive del fiume Tartaro veniva naturale dedicarsi a questa attività.
Di personaggi e episodi da raccontare ne avrei tanti, quello però che mi pare il più interessante è il personaggio che chiameremo per rispetto alla sua memoria, il pescatore, o meglio “l’uomo del fiume”. La sua famiglia era composta da quattro persone: papà, mamma, e due figli, un maschio e una femmina. Era una brava persona, almeno fino a quando il vino non gli annebbiava il cervello avendo il vizio del bere. Il vino lo produceva nel suo piccolo podere, era in prevalenza “bacò”, perché era la prima uva che veniva a maturazione e “clinton”uva che dava un vino saporito e corposo.
Il fenomeno era di poca durata perché le scorte si esaurivano in poco tempo. Ma essendo fine estate, inizio autunno, uno dei periodi più propizi per la pesca, non vi era giorno che il nostro amico salisse in barca più o meno alticcio. Come si può capire, se uno prende la “balla” e poi va a letto poco male, ma andare in barca è pericoloso. Lo si vedeva barcollare, ma nessuno lo ha mai visto cadere in acqua. Il nostro amico passava diverse ore in barca, non per niente lo chiamo il “pescatore”
Di questo mestiere conosceva tutti i segreti; dai tratti più pescosi ai modi più idonei per avere buoni risultati: solo in rarissimi casi tornava a casa con le ceste vuote. Si costruiva da solo gli attrezzi del mestiere con una tale abilità e maestria da fare meraviglia.
Nelle varie ore del giorno lo potevi vedere condurre la sua barca nei punti stabiliti per posizionare i “reun” e le “nasce”che gli permettevano di fare pescate abbondanti.
Nel pomeriggio inoltrato, fino a sera, collocava le “arti”. Da notare che aveva un sistema tutto suo per rintracciare le “arti” e per non farle scoprire da eventuali furbastri. Un giorno alla mia domanda come si regolasse mi disse “caro al me curioso a ne poso dirtlo, ma a te devi savere ca no mai perso gnanca un cordin”.
Alle prime luci dell’alba, come in un rito, allacciato il grembiule di tela cerata e sistemata l’attrezzatura partiva a ispezionare e ricuperare l’eventuale bottino.
Come tutti gli artisti, non infieriva mai contro le prede, ma con delicatezza estraeva dalle reti il pesce e poi lo deponeva nell’apposito vano che si trovava tra prua e poppa della barca, sotto il tavolato, provvisto di una quantità d’acqua sufficiente perché il pescato sopravvivesse.
Una volta tornato a riva prelevava il pesce e lo metteva nel “burcio”, un contenitore immerso nell’acqua e lì rimaneva fino a quando qualche cliente o rivenditore ne faceva richiesta.
Quante volte mia mamma mi ha comandato “Va dal pescatore a prendere il pesce, lui sa quale deve darti”, naturalmente il migliore. Il rito si ripeteva ogni venerdì e nei giorni di “vigilia” ovvero i giorni comandati di mangiare di magro. Era un mangiare di magro da leccarsi i baffi.
Un curioso come me cosa poteva fare? Interrogarlo, fargli delle domande sul suo passato, lui mi rispondeva sempre cordialmente, escluso alle domande che guardavano i segreti del suo mestiere. Il ritratto che ne veniva fuori era quello di un uomo dotato di una discreta intelligenza, che aveva tanto sofferto, prima, durante la guerra del 15-18, poi per le difficoltà economiche e incomprensioni in famiglia, dovute al suo carattere forte. Tutto questo lo ha portato a cercare conforto nel bere. Mi diceva “so che il vin le la me ruina ma a ne posso far de manco”.
I consigli per quanto buoni non servivano a niente.
Col passare del tempo, con la diminuzione delle forze la situazione peggiorava di giorno in giorno.
I figli si sposarono, rimase vedovo e poi il colpo finale, i lavori per rendere navigabile il fiume distrussero il suo Tartaro. Da fiume pieno di vita lo trasformarono in cloaca, la sua acqua da pulita e bevibile divenne torbida e putrida. Senza più nessun scopo, finì i suoi ultimi anni nell’abbandono più assoluto. Se la sua casa prima era povera ma pulita, poi e diventata una topaia, non voleva vedere più nessuno. Questo è il destino dei poveri cristi. Lo avrete capito che questo personaggio lo ricordo volentieri: prima perché fa parte della mia giovinezza e poi per il rammarico di non aver potuto fare niente per aiutarlo. Quante di queste persone si riducono così per colpa della miseria, del disagio e dell’abbandono da parte della società cosiddetta “per bene”? Una cosa è sicura, per me e per chi lo ha conosciuto, resterà per sempre “L’uomo del fiume”.