Condizione di vita dei contadini 1945-1955

Premetto che non sono uno storico e quanto leggerete sono ricordi di quando avevo 10-15 anni: quindi spero non me ne vogliate per le inesattezze e le forzature.

Si usciva da una lunga e disastrosa guerra, che aveva lasciato dietro di sé distruzione e miserie. Come sempre chi esce peggio da queste sventure sono i poveri e i deboli, ed una categoria debole erano i contadini. Al mio paese la forza lavoro era composta da una minima parte di operai occupati presso una fornace di mattoni, qualche dipendente pubblico, qualche professionista e qualche commerciante: ma la maggior parte, circa l’85 – 90% trovava sostentamento nel lavoro dei campi. I contadini potevano essere suddivisi in proprietari, fittavoli, mezzadri, coloni o “38” e braccianti.

I proprietari erano la categoria benestante, lavorava la terra di proprietà, possedeva bestiame, attrezzi agricoli e, qualcuno, anche il trattore (il grosso della meccanizzazione si è avuto negli anni 60 e 70).

I fittavoli non possedevano terreni ma li avevano in affitto (la mia famiglia era in questa categoria); il loro tenore di vita era soddisfacente e gestivano l’azienda a loro discrezione. Anch’essi possedevano vacche, cavalli ed attrezzi per lavorare il terreno.

I mezzadri, al mio paese, lavoravano soprattutto nella “tenuta Spaletti”, un vasto podere che copriva almeno la metà dei terreni coltivati della zona. Essi abitavano nei pressi dei terreni che lavoravano, usavano attrezzi ed animali da lavoro di cui, come si intuisce dal loro nome, erano padroni a metà. Non pagavano l’affitto, ma dividevano a metà sia le spese che i ricavi con il proprietario dei terreni. Non pativano la fame, ma il loro tenore di vita era molto basso. Le loro famiglie erano numerose perché c’era la necessità di molte braccia per il lavoro.

I coloni o “38” erano l’ultima categoria di contadini che potevano disporre di terreno sicuro da lavorare. Non possedeva né attrezzi, né animali, partecipavano alle spese e ricevevano il 38% dei ricavi (data la loro scarsa dimestichezza con il far di conto, era per loro difficile fissare le quote di spesa e ricavo, ed il proprietario spesso ne approfittava). La loro era una vita difficile, ma sopportabile.

I braccianti (o compartecipanti), come dice il nome, nel lavoro dei campi mettevano solo le braccia. Questa era la categoria più disagiata e quanto descritto finora serve esclusivamente per focalizzare la loro posizione nel lavoro agricolo.

Erano la maggioranza, il 50-60% degli abitanti della zona. Nelle loro famiglie quasi tutti lavoravano la terra (solo in tempi più recenti i giovani poterono essere avviati ad altri mestieri). Il loro lavoro era precario, nei primi mesi dell’anno veniva assegnato loro della terra in proporzione al numero dei componenti della famiglia (terra da zappa) che veniva coltivata generalmente a mais (che noi chiamavamo granoturco), barbabietole o canapa. A maggio, con la stessa modalità, veniva assegnato una quota di terra coltivata a frumento. Quando il grano era maturo, lo mietevano e lo trebbiavano in collaborazione con il proprietario dei campi. A fine annata agraria potevano prendere per sé una quota del grano, il 38% posto in granaio oppure il 33% posto in “crosetta”. In “crosetta” significa che il bracciante ha partecipato alla sola mietitura, mentre in “granaio” il bracciante ha partecipato anche al trasporto, alla trebbiatura e all’immagazzinamento nel granaio del proprietario

Questo grano e un po’ di soldi ricavati dalla vendita delle quote di mais, di barbabietole e di canapa dovevano soddisfare il fabbisogno della famiglia. I conti li facevano sempre i proprietari: se erano onesti davano il giusto, ma più spesso i braccianti rimanevano gabbati perché a quei tempi erano in pochi a sapere far di conto.

Mi hanno raccontato che un proprietario aveva uno strano modo di fare i conti, quando faceva le operazioni aritmetiche ad alta voce, per essere più credibile, penna alla mano, diceva. “Zero infia zero, zero. Zero infia zero, zero”. “Infia” significa “gonfia” e veniva usato al posto di “per”. Comunque il risultato era sempre zero e un contadino si ribellò replicando: “Al lasa lì da infiar cal zer, se no a m’lo fa sciupar.” Ovvero “La smetta di gonfiar quel zero, so no me lo fa scoppiare”. Un’altra storiella che mi è stata riferita, parlava di un povero padre di famiglia, che a primavera non aveva più niente da dare da mangiare ai figli ed era quindi andato dal proprietario a chiedere del frumento per fare il pane. Al che gli venne proposto l’iniquo contratto “Io ti do un quintalone ora e tu mi restituisci due quintalini alla raccolta dopo la mietitura”. Queste sono storielle ma non molto lontano dalla realtà di quei tempi.

Dal mais e dalla canapa i braccianti potevano ricavare anche i “castlun”, i tutoli delle pannocchie, e gli “stechi”, la parte legnosa della canapa, che potevano bruciare nel camino d’inverno per riscaldarsi. Un ulteriore aiuto veniva dalla quota di giornate di lavoro assegnate ai capifamiglia e ai figli maschi maggiorenni da un’apposita Commissione formata dai rappresentanti delle varie categorie. I proprietari, fittavoli e mezzadri mettevano a disposizione una percentuale di terra adibita a grano o ad altre colture che andava a formare una quota di giornate lavoro sulla terra che la Commissione metteva a disposizione dei braccianti.

Ho scritto che il lavoro dei braccianti è precario, infatti ogni anno non c’era alcuna garanzia di poter andare a lavorare presso lo stesso datore di lavoro, né la disponibilità di terra da zappare o mietere. Se si aggiungeva poi il rischio della siccità o di altre calamità naturali, molte volte non c’era di che dare da mangiare alle numerose bocche in famiglia. Consapevole che il solo lavoro della terra non bastava, ogni famiglia si dava da fare come poteva. Io abitavo ai quei tempi vicino ad un fiume e ricordo bene quanto era importante la pesca: in ogni momento dell’anno, i miei amici e compagni di scuola, nel loro tempo libero, con i loro genitori, si davano un gran da fare con canne da pesca, reti ed altre attrezzature simili: se la pesca lungo il fiume era abbondante si poteva anche ricavare qualcosa con la vendita del pesce ai vicini di casa. Un’altra fonte di guadagno era l’allevamento di oche, anatre e conigli, qualcuno possedeva anche un maiale. Comunque sulla tavola spesso non c’era pane a sufficienza e la carne la si mangiava solo la Domenica. Al posto del vino c’era la “graspia”, una bevanda ottenuta dalla macerazione in acqua delle vinacce (quel che rimaneva dopo aver estratto il vino). Ricordo che io ed i miei cugini scambiavamo il nostro vino buono con la “graspia”, perché piaceva tanto ai bambini, in quanto era più leggera e frizzante.

Al posto del pane c’erano le patate cotte in vario modo, al posto della carne c’erano le uova o i fagioli e a volte nulla. Un grande aiuto arrivava in dicembre quando si poteva macellare il maiale (se non era già stato venduto per pagare i debiti) dal quale si ricavavano i salumi, il lardo e lo strutto. I salumi sostituivano la carne fresca: “Quanto erano buoni i cotechini e la minestra fatta col il brodo di cottura!”, ma forse era solo la fame. Il lardo insaporiva la minestra, con lo strutto si friggeva, si condiva il pane e veniva usato per tanti altri impieghi.

A voi che andate nei centri commerciali e negli ipermercati sembrerà ridicolo, ma ai quei tempi ogni famiglia povera si presentava dal salumiere o dal pizzicagnolo con un libretto. La magra spesa che il capo famiglia od un suo incaricato faceva non poteva essere pagata  subito, (non c’erano soldi), ma veniva registrata in duplice copia sul libretto, uno per ogni famiglia e uno per ciascun commerciante. Un paio di volte all’anno si faceva la somma e si pagava il debito accumulato. Se non si poteva pagare, spesso il negoziante smetteva di fornire merce ed erano guai: i commercianti, nonostante tutto, era una categoria potente e benestante.

A quei tempi erano pochissime le merci confezionate e non di rado si veniva imbrogliati sul peso. Ci si doveva portare da casa i contenitori per l’olio, l’aceto, il petrolio per illuminazione. Il reso e la pasta erano venduti in sacchetti di tela. Per lo zucchero si usava la “carta da zucchero” conosciuta anche oggi per il suo particolare colore.

Credo che siano ormai chiare le condizioni di vita delle famiglie dei braccianti. Nonostante questo, i benestanti dell’epoca li consideravano dei fannulloni e degli attaccabrighe. Ancora oggi mi chiedo come si potesse pretendere dai braccianti un atteggiamento sottomesso data la loro vita di debiti, fame, miseria e sfiducia: arrivare alla fine della giornata era la loro massima aspirazione.

Vi racconto un aneddoto che un mio amico di gioventù mi racconta spesso quando ci incontriamo durante le ferie. Era consuetudine che il pagamento dei braccianti avveniva solo dopo la raccolta, quando si dividevano i prodotti o i soldi ricavati dalla vendita. Solo pochi datori di lavoro anticipavano compensi durante l’anno. Uno di questi era mio padre. Durante le feste natalizie, questo vecchio amico, dopo aver ricevuto alcuni acconti, veniva a casa nostra per ricevere il saldo finale. Quell’anno, carte alla mano, risultò che aveva ricevuto in acconto mille lire in più del dovuto. Ma dopo cinquant’anni, quando mi vede mi ripete sempre la stessa cosa: che a quella notizia egli era caduto nello sconforto, ma che invece mio padre gli disse “Tu dovesti dare mille lire a me. Ma capisco la situazione e sai cosa faccio? Do io invece mille lire a te.”. E che poi corse per tre chilometri fino a casa per consegnare il denaro alla madre e che quell’anno poté festeggiare il Natale come noi. E che si ricorda quel fatto come se fosse ieri ed invece era il 1949.

Data la situazione, le masse contadine incominciarono a far scioperi e a manifestare. Lo sciopero che ho più impresso nella memoria è quello del maggio del 1948: iniziò il 5 e finì il 29. Lo ricordo bene per due motivi. Per prima cosa mi ricordo delle terre incolte e dei raccolti compromessi, dei muggiti delle vacche in stalla che nessuno mungeva.

Ma ricordo anche di un giovane assassinato con un colpo d’arma da fuoco. I fatti si svolsero più o meno così: dopo un paio di settimane di sciopero la situazione si era aggravata e rischiava di precipitare: nelle stalle il bestiame veniva alimentato di nascosto dai cosiddetti “crumiri” e per impedirlo gli scioperanti avevano istituito ronde e picchetti. Bastava una scintilla per far scoppiare il fuoco. Spesso interveniva la “Celere” (una squadra di pronto intervento della Polizia nota per la sua brutalità), con conseguenti scontri, manganellate ed arresti. Una sera si diffuse la voce che gli scioperanti avevano preso in ostaggio alcuni agenti di Polizia. Gli scioperanti dalla campagna e le squadre di Polizia si precipitarono in paese in un caos infernale nel mezzo del quale si udirono degli spari ed un giovane di nome Evelino Tosarello cadde morto. La giornata si sarebbe conclusa in modo ancor più tragico se l’allora Monsignore Don Graziano Lucchiari, chiamato ad amministrare gli ultimi conforti religiosi, non fosse riuscito a calmare gli animi. Recandosi all’ospedale, passando in mezzo alla folla inferocita, forte del prestigio e del rispetto che i paesani gli tributavano, richiamò tutti al dovere, di fronte alla morte, di sentirsi fratelli.

Avevo solo dieci anni ed il fatto mi colpì molto, e ancora adesso mi chiedo perché deve sempre morire qualcuno prima che si risolvano i problemi.

Seguirono altri scioperi, venne l’alluvione del Polesine nel 1951, la miseria crebbe e molte famiglie dovettero emigrare verso la Lombardia ed il Piemonte. I paesi si spopolarono, il mio passò da 8000 abitanti a circa 3000. Si diceva che il Po, rompendo gli argini, ha portato l’acqua al mare ed i Polesani in Piemonte.

Per chi è emigrato, i primi momenti sono stati duri, c’era il lavoro ma non c’erano le abitazioni, c’era difficoltà di inserimento e nostalgia per la terra lasciata. Ma ne è valsa la pena, alcuni miei amici d’infanzia hanno comprato l’appartamento, hanno fatto studiare i figli, si sono presi i loro meritati periodi di vacanza. Quando partirono, erano considerati fannulloni e straccioni, ma con la loro forza di volontà ed il ritrovato entusiasmo, hanno contribuito al miracolo economico degli anni ’60. Sono partiti piangendo, ora tornano con i capelli bianchi ma con la consapevolezza di chi si è realizzato.

Sento il dovere di ringraziarli perché con la loro partenza hanno consentito anche a chi è rimasto di vivere e migliorare. Loro hanno avuto coraggio e hanno capito che la terra Polesana era troppa piccola e avara per sfamare tutti.

 La famiglia di braccianti nel 1942
 La stessa famiglia nel 1964 emigrata a Milano nei primi anni 50.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *