La bella Carmela, la tragedia dal Giaron

Se vi chiedo chi di voi sa cosa era “Al Giaron” che c’era al ponte di Trecenta? Solo in pochi sanno rispondermi, solo i più anziani.

Allora vi racconto una storia, finita in tragedia, con sullo sfondo la ghiaia del “Giaron”. Negli anni sessanta il corso del fiume Tartaro venne deviato, per renderlo navigabile. Come molte realizzazioni di un certo rilievo,vuoi per la burocrazia, vuoi per negligenza, occorsero molti anni per essere completata. La parte principale dell’opera fu realizzata in tre o quattro anni, ma lungo il fiume, solo recentemente si vedono transitare bettoline che trasportano petrolio, e solo in questi giorni si sta realizzando un attracco per piccoli natanti. Anche a Trecenta. Meglio tardi che mai.

Mentre osservavo i lavori in corso mi sono ricordato di un grave fatto successo negli anni quaranta, l’annegamento della bella Carmela. Il teatro della tragedia si può solo ricordarlo, il luogo dove è successo non esiste più. Se transitate in periferia di Trecenta dal lato nord verso Badia Polesine, per capirci, troverete il ponte sul nuovo corso del fiume, ma se siete distratti non vi sarete accorti di avere attraversato il ponte vecchio, ora interrato. Questo è quello che ci interessa.

Prima di essere interrato, il canale aveva a monte del corso una spiaggia ghiaiosa, “Al giaron”. Si era formato nel corso degli anni, quando in questo luogo era scaricata la ghiaia che arrivava a bordo di grossi barconi, utilizzata per l’edilizia e, soprattutto, per fare le strade. E la bella Carmela?

Quando questo non avveniva, la spiaggia era invasa da decine di lavandaie.

La lavatrice in quei tempi era impensabile, pochissime le abitazioni erano provviste di luce elettrica. La prima fase del bucato veniva fatto in un locale chiamato “lisciara”. Da notare che parte del bucato, così detto grosso, era fatto poche volte l’anno.

I detersivi non esistevano ed al suo posto si usava la lisciva, la “liscia”. Come era fatta? Con la cenere.

Andiamo per ordine, prima il prelavaggio, che consisteva nello strofinare i panni con acqua e sapone e “onto de gomito”. Il sapone che usiamo oggi se lo poteva permettere solo i signori, gli altri adoperavano quello fatto in casa fatto con i semi di ricino, scarti della macellazione del maiale e soda. Finita l’operazione si deponevano i panni nel “mastello da bugà”. La lisciva si faceva prima, setacciando la cenere e, quando l’acqua nel grande paiolo bolliva, si buttava la cenere  sopra il telo che copriva la biancheria da lavare, il “bugadoro”, il quale filtrata la lisciva, rendendola limpida. Dopo qualche ora la biancheria aveva bisogno solo del risacquo.

Si andava al canale, primo perché l’acqua necessaria era tanta, e poi perché nelle zone basse del paese l’acqua era gialla e quindi non adatta al risciacquo, “non rendeva il bucato bianco”

Allora ecco, che di buon mattino, con tutti i mezzi ci si recava al “giaron” dove l’acqua era talmente limpida che si poteva berla. Specialmente in certi periodi dell’anno quando i lavori non urgevano potevi vedere: donne con la loro carriola carica di panni da sciacquare, carretti, e perfino carri trainati da buoi. Questi ultimi venivano dalla Tenuta Spaletti. Se quelli spinti a mano richiedevano fatica, i carri trainati erano uno spettacolo, perché oltre alle ceste di vimini colme di panni, erano carichi di banche da lavare, e di donne sedute con le gambe a “penzolon” e anche se le sottane erano lunghe, qualcosa si poteva intravedere. Spesso cantavano a squarciagola, cori che oggi li sogniamo. Abbiate pazienza arriva anche la bella Carmela.

Le prime che arrivavano meglio alloggiavano, perché i primi posti occupati erano quelli a monte, per un motivo evidente, l’acqua era più pulita, nessuno o pochi la insaponava, per le altre niente di grave, bastava poco tempo perché l’acqua tornasse limpida.

Intanto i mariti una volta messe all’opera le proprie mogli e provveduto a dare il fieno ai mezzi di locomozione (le vacche) si recavano a bere un “gòzo” de vin da Castlan o alla Nave.  

Potete immaginare la confusione, canti e frizzi. Molto staccata dalle altre, quasi sotto il ponte, ecco arrivava Carmela, una bella donna, elegante, ben curata, ma sola.

Come arrivava i canti cessavano, il mormorio cresceva, un orecchio attento poteva sentire: “Guarda la sfacciata la ne se vergogna gnanca” oppure “Che muso cla ga”.

Di sicuro si sapeva che il marito era stato dichiarato disperso in Russia, erano gli anni del dopo guerra, i pettegolezzi riguardavano invece ad una sua presunta avventura con un noto cittadino di Trecenta. Se ci fermiamo ai pettegolezzi il giudizio malevolo è facile, ma la Carmela di sfortuna ne ha avuta tanta. Orfana di genitori a dieci anni, gli zii adottivi molto severi con lei, molto meno con i propri figli. A diciassette anni si sposa, più per la situazione triste che per amore. Tanto che aveva ottenuto dal futuro sposo la promessa di consumare il matrimonio al compimento del diciottesimo anno. La malasorte non si accontenta, lo sposo fu richiamato militare col grado di caporale, e subito avviato sul fronte Russo. Era il 1942 quando ricevette l’ultima lettera, poi più niente. Sola, senza amicizie, trascorse tre anni di stenti ed intanto la guerra finisce. Al distretto militare dove si reca per avere notizie le viene risposto, che dopo la battaglia del Don non hanno avuto più notizie, quindi viene dichiarato “disperso”. Senza appoggi, senza sussidi, disperata, accetta di impiegarsi come dama di compagnia di una signora facoltosa del luogo, la quale ha un figlio con la fama di “sciupa femmine”. Carmela a soli ventuno anni, rifiorisce, smette il lutto, e incominciano i pettegolezzi.

Il paese è piccolo, la gente mormora, dice il proverbio. La signora, mamma “timorata”, licenzia Carmela. Di nuovo disperazione, i guai non finiscono mai. Cosa le resta da fare se non la lavandaia per i “signori” di Trecenta? Le malelingue la bersagliano senza pietà. Come abbiamo detto il suo posto al “giaron” era quasi sotto il ponte, lontana dalle boccacce, ma nello stesso tempo era presa di mira da alcuni ragazzi che si tuffavano dal ponte, uno si chiamava “Anco”, diminutivo di Franco. Gli spruzzi la investivano, la inzuppavano, le pettegole sghignazzavano e la nostra Carmela tornava a casa sempre più avvilita.

Era un venerdì 17, la scena sempre quella, le pettegole blaterano. Ad un tratto un grido viene dai ragazzi sul ponte “la Carmela, la Carmela”. Tutti corrono, ma la corrente la inghiotte. Fu ripescata tre giorni dopo, a due chilometri di distanza, in località Cà Variana, dove abitavo in quegli anni. Ho assistito al ritrovamento, aveva in mano la foto di suo marito.

La signora “Timorata” e suo figlio (che si è saputo dopo era gay, “culaton” in quei tempi) vollero ed ottennero che il corpo della sventurata fosse sottoposto ad autopsia. Udite, udite! Carmela era vergine, noi sappiamo del patto che aveva con il suo amato marito. Le pettegole hanno avuto il loro ben d’affare a cospargersi il capo di cenere.

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