La sporca esecuzione dei martiri di Trecenta

Quello che state per leggere non vuole essere un documento storico. E’ un racconto che prende le mosse da un fatto tragico realmente accaduto il 24 Aprile 1945 a Trecenta. Il mio unico scopo è quello di ricordare la fine tragica di alcuni giovani e rendere loro un breve tributo perché il loro sacrificio non sia stato inutile.

La cronaca racconta di esequie che si svolsero nella chiesa Parrocchiale S. Giorgio di Trecenta, qualche giorno dopo al fine della guerra, il 27 Aprile, in un clima commovente, doloroso e rassegnato. Fu un funerale collettivo dove si contarono dieci bare, quattro giovani partigiani o presunti tali ed altre sei vittime, massacrati dai tedeschi  in ritirata. Un’altra vittima di quei tragici giorni, per motivi burocratici, ebbe la  cerimonia singola il giorno dopo.

Per il numero e per la causa è rimasta la tragedia più grave del nostro paese che neanche il tempo potrà far dimenticare. La commozione ed il dolore era sul volto di tutti i partecipanti, i parenti erano distrutti, molti genitori e fratelli non ebbero neppure la forza di partecipare ai funerali, preferirono chiudersi nel loro dolore.

Ecco i loro nomi:

Età (anni e mesi)Nati aProfessione
Mondini Guglielmo16  e 9Riva del Gardastudente
Pasqualini Ermete18  e 7Trecentaoperaio
Zorzan Rino18  e 10Giaccianooperaio
Bellinello Erminio22  e 5Grignano Pol.studente
Scavazza Enrico25  e  4Trecentaoperaio
Ferraresi Giovanni30  e   6Trecentaoperaio
Baschirotto Silvestro31  e  9Trecentaoperaio
Casari Ferruccio38 e 1Trecentaagricoltore
Scarpari Arnaldo49  e  5Trecentaagricoltore
Veronesi Angelo63  e  7Villamarzanaagricoltore
Azzolini Anselmo67  e  3Trecentaimprenditore

Questo racconto parla dei quattro giovani partigiani, dei loro compagni e dei loro amici e parenti che li piansero.  Delle altre vittime parleremo forse un’altra volta.

I fatti si svolsero i giorni precedenti la Liberazione: il clima era pesante, i repubblichini, padroni della situazione, fino a pochi giorni prima, resesi conto che la fine era vicina, avevano fatto fagotto e si erano eclissati. Qualcuno si era convertito all’ultimo momento ed era passato con i  partigiani ed uno di questi, all’alba del 25 aprile, benché sconsigliato dai nuovi compagni, per dare prova e far vedere la serietà della sua conversione, uscì allo scoperto e fu colpito da una fucilata infertagli da un tedesco nascosto dietro il mulino. Ma di questo parleremo più avanti.

 Andiamo al 23 pomeriggio, giorno dedicato a S. Giorgio, patrono di Trecenta. I partigiani venuti a conoscenza della fine imminente della guerra, avevano chiesto aiuto alle truppe alleate che avanzavano in modo spedito trovando scarsa resistenza; le truppe tedesche erano allo sbando. L’obiettivo dei partigiani era l’eliminazione degli ultimi gruppi di tedeschi irriducibili asserragliati oltre il fiume Tartaro. Gli Alleati rifiutarono.

Il comandante dei partigiani, a questo punto, decise di elaborare una nuova strategia. Studiato nei minimi particolari, l’attacco fu fissato per l’alba del 24 Aprile. Nel frattempo, l’obiettivo di quel pomeriggio, non meno pericoloso, era il riprendere possesso della casa del fascio. Il compito si rivelò più facile del previsto, dato che gli inquilini l’avevano abbandonata notte tempo.

Nonostante il successo, per prudenza i veterani consigliarono i più giovani ed inesperti di non muoversi dalle loro case ritenendoli in pericolo vista la situazione creatasi. Ma qualcosa non funzionò. Le voci che corsero e che corrono tutt’oggi sono le più varie: i giovani non seguirono i consigli perché furono contattati da qualcuno di cui loro avevano fiducia che, con la promessa di un paio di pantaloni pro capite, li invitò quel pomeriggio del 23 aprile ad andare in piazza. Si potrebbe pensare che un paio di pantaloni fosse un premio scarso per una missione così pericolosa. Ma per chi era povero in canna era già molto. Il resto probabilmente lo fece l’entusiasmo e la giovane età. Un’altra voce, la più inquietante, parla di un tradimento: si dice che si fossero fidati di un professore loro amico e confidente che prima li istruì e poi li tradì facendo il loro nome ad una spia dei tedeschi. Si parlò anche di una telefonata fatta ai compagni di Badia Polesine per chiedere rinforzi, ma non si sa se per sbaglio, o per una delazione, invece dei compagni arrivarono i soldati delle S.S. Fatto sta che all’imbrunire furono catturati sei giovani, immediatamente portati nella sede tedesca ospitata nell’abitazione del Prof. Badaloni. Erano molto giovani, tra 17 – 22 anni, quattro erano trecentani: Furini Mario, Pasqualini Ermete, Scarazzati Romano e Zorzan Rino, due erano invece studenti ospiti di una famiglia del luogo: Belinello Erminio e Mondini Guglielmo.

Essi furono sottoposti ad un duro interrogatorio, minacciati e poi torturati con crudeltà: bruciatura di sigaretta, calci e pugni senza risparmiare nessuna parte del corpo, testa, torace, genitali, per ore ed ore tutta la notte. Le urla, le grida e  le implorazioni si sentivano in tutto il circondario. Quando disperato uno di loro, Ermete, li supplicò di smettere perché aveva la mamma malata ed il papà prigioniero in Germania, gli aguzzini infierirono ancora di più, urlandogli le parole: “Figlio di un cane, degno figlio di tuo padre. Ora comprendiamo di che razza sei.”. Ad onore di cronaca pare che in quella casa, complici dei tedeschi, fossero presenti una o più persone di Trecenta che però non hanno partecipato alle sevizie.

Alla prime ore del giorno gli aguzzini, non ottenendo risposte soddisfacenti, passarono alle vie di fatto. Uno alla volta li fecero uscire sulla strada, ora via N. Badaloni, facendo loro credere di essere liberi. Il primo ad uscire, si accorse subito, varcando la soglia di essere atteso da due tedeschi armati di mitra. Fatti pochi passi, invece di aria buona, lo aspettava una scarica di mitra. Solo Dio può sapere la disperazione e i pensieri che passarono in quei momenti per la testa di quei poveri giovani. La scena si ripeté per altre tre volte, la disperazione cresceva. Gli ultimi due, raccolte le loro ultime forze, tentarono il tutto per tutto e, con gesto fulmineo, uscirono all’impazzata. Con una spallata fecero ruzzolare a terra i due tedeschi. Con le forze rimaste fecero qualche decina di metri in direzioni opposte e oltrepassarono con un salto le recinzioni di due abitazione vicine. Riavutisi dalla sorpresa, i due tedeschi spararono in direzione dei fuggitivi, per fortuna, con scarso risultato, solo qualche graffio su un corpo già  martoriato. In questo modo si salvarono.

Lasciamo i due scampati nei loro nascondigli di fortuna e torniamo sul luogo del massacro. Tra i primi a recarsi sul posto ci fu la fidanzatina di uno di questi poveri ragazzi (ancora adesso a più di mezzo secolo di distanza, a chi la interroga la prima risposta la danno gli occhi che le si riempiono di lacrime) solo dopo un po’, sforzandosi,  incomincia a raccontare: “La scena ca me se gà presentà davanti la iera da inferno, i corpi i iera talmente massacrà che  quasi non i se podea riconosare, gò riconosesto al me moroso  più che altro da un segno particolare”

 “Vinta dal me istinto me son butà su de lu basandolo e accarezadolo zercavo de rianimarlo disperada, ma ne ghe stà gnente da fare, finchè sfinia gò dovesto arrenderme, e pò son sta portà via a forza da quache persona pietosa.” 

Qui si ferma vinta dalla commozione, qualche ora dopo asciugate le lacrime riprende.

“Mi scuso se non go podù continuare a rispondare alle vostre domande qualche ora  fa, iera sfinia. Ora ca go la mente serena anca se sempre sconvolta posso dirve cosa go provà in te chi momenti. Subito, alla prima notizia, ne volea credarghe, me son fatta coraio e o volesto vedarghe ciaro. Da casa mia al posto maledio la go fatta de corsa, dalla foga son cascà un paro de olte come inebetia. La me mente confusa passava dalla speranza ca ne fosse vero, alla disperazion dal contrario. In te cal tratto de strada, quanti pensieri a me pasà par la testa. Come na fotografia go visto i momenti bei co passà col me morosetto. Ierino poco più che potleti, lu non al gavea ancora tutta la barba, mi con ancora i calzetti a sganbarela ma se piasevino cusi come ca ierino. Divento ancora rossa in faccia a dirve ste robe, un dei pensieri ca me vegnù in mente in ta chel momento le sta i primi appuntamenti segreti, parchè ne vegnese savere gnente i nostri genitori che come minimo i savaria dà dei “snarucion” e che a ghevino ancora “la pisota al sole”. Il primo baso ca sen da al ma fatto l’efetto de un terramoto, in ben sintende. I progetti ca fasevino par l’avenire iera poveri, ma sopratutto parchè poveri, i sogni, fanno vivere meio, e sopratuto i ne costa gnente.

Arrivada a pochi passi dal masacro me son dita: se la notizia l’è vera de i to sogni te restarà un pugno de mosche; che tremendo risveio: la notizia la iera purtroppo vera. I giorni che seguirono iò bagnà de lagreme, tutte quelle ca ghea in ti oci. A sedese anni un trauma qusì nol se pol augurare gnanche al pezo nemigo. Go trovà conforto in te i me genitori (lori i ne mla mai  dito, ma i saea tutto dei miei amoretti, e al ghe piasea anca a loro ……al me moretto). Ma solo la mia forte fede in Dio me ga iutà a vivere. Go  confessa, tutto  a quelo che dopo tanti anni le deventà me marì e go chiesto rispetto par al  me ricordo, e son stà capia, ora ie tutti e du in zielo e sento che i me protege. Ve prego avi rispetto dla me storia.”

Chiusa questa parte di racconto, occupiamoci dei due scampati miracolosamente al massacro, uno il Romano Scarazzati, si era rifugiato nel  cortile della Casa Divina Provvidenza (nome bene augurante), l’altro, Mario Furini, si era rifugiato nel parco del sig. Milani (da notare che erano amici per la pelle e mai come in questo caso il detto era azzeccato). Ora si trattava di ricuperarli e portali in salvo. Il clima di quelle ore già lo conosciamo, Romano è stato soccorso quasi subito dal fratello maggiore, medicato alla meno peggio dalle suore della casa Divina Provvidenza, però occorreva trovare un nascondiglio più lontano e più sicuro. Il fratello chiese ospitalità presso amici nella valle Spaletti. Questi si dichiararono spiacenti e rifiutarono, adducendo il motivo che anche loro erano nel mirino dei tedeschi. Mario invece fu ospitato da una zia insospettabile. Solo a tarda sera, col buio, furono trasportati nell’Ospedale di fortuna che il Prof. Grisetti aveva organizzato nell’abitazione del sig. Bertazza in via Bon dopo avere abbandonato quello in centro preso di mira dai bombardamenti. La forte fibra e l’età permise loro di guarire in poco tempo le ferite nel corpo; quelle morali avrebbero avuto bisogno di molto più tempo, e forse non sono mai guarite.

Ora proviamo vedere in dettaglio le peripezie e i pericoli corsi per mettere in salvo Romano. Come già accennato il  fratello maggiore Nino coordinatore dei partigiani locali, si doveva destreggiare fra i mille pericoli disseminati  sul  percorso. L’unico mezzo di trasporto era la bicicletta: ne aveva assoluto bisogno il nostro eroe; tramite un bambino fece arrivare la richiesta a casa sua, fissando l’appuntamento in via Strada Morta a qualche centinaio di metri da casa sua, severamente controllata dai tedeschi, che conoscevano il ruolo del ragazzo. Trovata una vecchia bicicletta, gliela fecero recapitare dai due fratelli minori Walter e Erminia, attraverso i campi, per non passare vicino alla Fornace che era presidiata dagli ultimi tedeschi, ma pur sempre pericolosi, come abbiamo visto.

Il punto più pericoloso lo passarono percorrendo un fosso profondo sguazzando nell’acqua fino alle ginocchia, la fatica fu enorme ma servì per passare senza essere visti e consegnata la bici al fratello, caddero sfiniti a terra ma soddisfatti  per l’opera buona compiuta. Il ciclista intanto si allontanò attraverso i viottoli di campagna verso il traguardo che lo aspettava. Questi avvenimenti si svolsero il pomeriggio del 24.

Dopo i gravissimi fatti vissuti il mattino e il ricovero in Ospedale dei feriti, non ci resta che narrare l’epilogo della sortita che doveva portare l’eliminazione degli ultimi drappelli tedeschi come sappiamo appostati oltre il fiume Tartaro. Precedentemente, abbiamo lasciato i partigiani locali  dopo che avevano elaborato la loro strategia, che era questa: un gruppo di partigiani doveva salire sull’argine del fiume al “caladin” ora via Donizzetti, un secondo gruppo alla nave (l’ex casa della signora Marina Ganzaroli ora Bimbati, al centro rispetto l’obiettivo). Il loro compito era di coprire col fuoco dei loro fucili l’attraversamento del fiume da parte di un terzo gruppo composto da veterani.

Al segnale convenuto scattò l’operazione, i tedeschi presi di sorpresa non riuscirono ad organizzarsi, ma riuscirono ad uccidere il convertito dell’ultimo momento alla fede partigiana che abbiamo conosciuto all’inizio di questa brutta storia.          

Chi riporta queste storie tragiche non parteggia per una o l’atra parte in campo, ma è dalla parte del più debole, è contro la sopraffazione. Spetta a chi ha fatto del male chiedere scusa. Detto ciò riporto ora alcuni episodi dolorosi verificati dopo la tragedia. Ricordate, abbiamo detto che il papà del povero Ermete era prigioniero in Germania; liberato, tornando a casa in condizioni pessime, per strada incontrò un conoscente, dopo averlo salutato, chiese se nella sua famiglia, durante la sua assenza fosse successo qualcosa, ricevuta la risposta che non era successo niente, barcollando scuotendo la testa pronunciò queste parole: “Tu non me la racconti giusta, è da tempo che dentro di me, qualcosa mi dice che mi deve essere accaduta una grossa disgrazia, grazie lo stesso”. Il sangue non è acqua, fra gli stenti subiti e il peso della disgrazia, visse qualche anno malamente e poi raggiunse il figlio.   

Altro episodio che mi è stato riferito è il seguente: qualche giorno dopo, finita la guerra, fece visita alla caserma dei carabinieri di Trecenta un signore di Grignano Polesine chiedendo di un carcerato. Si deve notare che in quei momenti tutto era nel  caos e che anche la caserma era presidiata dai partigiani. Ricevuta la risposta affermativa (il carcerato era un presunto responsabile del massacro del 24 marzo, catturato il giorno dopo) chiese se gli davano il permesso di vederlo. Una volta aperta la porta della cella, come un fulmine, si avventò sulla preda con calci e pugni da ridurgli in poco tempo la faccia una maschera di sangue, occhi tumefati e denti che volavano, gridando: “Non riavrò più mio fratello, ma ogni volta che ti incontrerò ti massacrerò di botte”. Se non fossero intervenuti, egli lo avrebbe ucciso con le sue mani, tanta era la smania di vendicare il fratello. Avrete capito si trattava del fratello di Erminio Bellinello.

Come in tutte vicende umane, c’è chi ci rimette e chi ne approfitta. Si narra che alcuni partigiani (il cui nome venne cambiato in “gratigiani”) subito dopo la fine della guerra, o la notte stessa, svaligiarono i due depositi tedeschi che si trovavano in Villa Pepoli (il “Palazon”) e nella fornace Crivellari, razziando tutto quello che poterono. Io credo nel proverbio “la roba male acquistà come la vien la và” e ne ho avuta la conferma: dopo momenti di sfacciata baldoria, quasi tutti i ladri sono finiti miseramente.

Il fratello di uno dei caduti mi ha raccontato che quando è tornato a casa dopo parecchi mesi di prigionia, non sapeva della morte del fratello. La notizia lo colpì molto duramente e rimase traumatizzato. Mentre gli raccontavano come si svolsero i fatti, nella sua mente si fece strada la volontà di vendicarsi e di rendere giustizia al fratello. Aveva individuato in un compaesano quello che, secondo lui, era complice nel delitto e si mise a braccarlo. Ossessionato dalla convinzione che era suo dovere eliminarlo, portava sempre con se una rivoltella carica. La mamma, venuta a conoscenza dell’intenzione del figlio, lo scongiurò a desistere dal suo proposito di vendetta con queste parole: “Questa maledetta storia mi ha tolto un figlio, se ti vendichi, ne perdo un altro. Lascia che sia Dio a provvedere con la sua giustizia.”

Tanto insistette che lo convinse a desistere dal suo progetto. Per precauzione e per paura di tornare sui suoi passi, una mattina all’alba si recò sul ponte del tartaro e gettò l’arma nel fiume mentre il sole stava sorgendo.

Emblematica è la storia di una madre di uno dei caduti. Per tutto il tempo che visse non volle mai passare davanti alla casa dove le avevano massacrato il figlio, al punto che per portare il pranzo al marito che lavorava come mugnaio poco distante, preferiva fare a piedi il giro della piazza allungando la strada di un chilometro. Nel giorno della commemorazione dei defunti si ricava sulla tomba del figlio al mattino presto e vi rimaneva, anche con la pioggia e al freddo, fino a sera fissando per un’intera giornata la foto del figlio

Se la guerra provoca questi orrori e questi dolori non si capisce perché anche in questi giorni qualcuno sostiene che la guerra è l’unica soluzione delle controversie internazionali. Se poi teniamo presente le gravissime parole: “In tempo di pace i figli seppelliscono i padri, invece in tempo di guerra sono i padri che seppelliscono i figli”.

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