Per capire la storia che sto per raccontarvi è necessario conoscere il contesto e il clima in cui si è svolto l’evento. Era l’estate del 1944, tempo di guerra, nella fattoria di campagna, dove abitavo con la mia famiglia. La famiglia era di tipo patriarcale: contando i miei genitori, i miei fratelli, gli zii e i cugini, eravamo in diciannove. Se aggiungiamo le famiglie dei braccianti che abitavano vicino, il numero di bambini e di ragazzi che gravitavano attorno alla corte superava la quindicina.
Raggruppati per fasce di età, si trascorrevano le giornate giocando ai giochi in voga a quei tempi: il nascondino (che noi chiamavamo “puccia”), a pallone (fatto di stracci, s’intende, perché quello di cuoio era un lusso che pochi potevano permettersi), a “biscara” ed il cerchio.
“Biscara” è un gioco che si avvale di un pezzo di legno, non più lungo di 20 cm, appuntito alle due estremità. Con un bastone doveva essere colpito e fatto volare il più lontano possibile. Il gioco richiede destrezza da parte del lanciatore. Ad ogni lancio veniva attribuito un punteggio e vinceva che faceva più punti. Il cerchio, invece, si faceva rotolare. Era di legno e spesso non era troppo rotondo e occorreva abilità per farlo stare diritto. Le bambine giocavano con le bambole di pezza, fatte dalle nonne. Insomma, non ci si annoiava.
La zona era occupata da truppe tedesche e spesso i plotoni in transito sostavano nella fattoria. Se arrivavano con carri o carrette militari trainate da cavalli, anche se erano di notte, i soldati ordinavano di liberare la stalla, di far uscire all’aperto le mucche e i vitelli per far posto ai loro cavalli. Se arrivavano con automezzi si doveva liberare i ricoveri attrezzi per mettere al coperto i loro mezzi. Potete immaginare il caos, la confusione e lo stato di agitazione che si generava in quei momenti. Aggiungiamo che spesso i nuovi arrivati, che a volte erano numerosi, pretendevano anche da mangiare e veniva invasa anche la casa.
Come in tutte le genti, anche tra i tedeschi c’è brava gente rispettosa e ci sono i villani e prepotenti. Le donne erano terrorizzate, avevano difficoltà a comprendere gli ordini e paura di sbagliare. Le operazioni venivano effettuate dalle donne anziane che raccomandavano alle giovani di farsi vedere il meno possibile (la prudenza in questi casi non era mai troppa).
Ed ora arriviamo al triste episodio di cui sono stato testimone: era il mese di settembre e una decina di camion avevano invaso la corte, sistemandosi in parte sotto il fienile, parte sotto le barchesse e parte all’ombra delle stesse. Per loro era una necessità per dare meno nell’occhio e non essere visti dagli aerei alleati che sorvolavano la zona. A queste invasioni, a malincuore, ci si può fare l’abitudine: di solito, al termine di queste operazioni, tornava la calma. Ma quel giorno non fu così. Era di pomeriggio ed il sole faceva ancora sentire il suo calore; una strana agitazione ruppe la calma, un parlottare crescente, a noi incompressibile, coinvolse tutti i militari. L’ufficiale in comando, una volta appurati i fatti, convocò le donne anziane, le mamme per capirci e con tono minaccioso, cercando si essere ben compreso, espose loro il caso: era sparita una penna stilografica.
Era successo che un militare stava scrivendo una lettera, seduto al posto di guida di un camion. All’ora di pranzo sospese l’attività ma al suo ritorno non trovò più la penna stilografica che stava usando. A suo dire, l’oggetto aveva un valore economico ed affettivo perché era il regalo di sua madre.
Esposto il caso, il comandante minacciò che se entro tre ore la penna non fosse stata consegnata spontaneamente, ci avrebbe pensato lui a trovare il colpevole e quando lo avrebbe trovato gli avrebbe tagliato la mano. Dal tono con cui egli pronunciò quelle parole non ne poteva venire nulla di buono. L’appello era stato rivolto alle mamme perché alcuni bambini erano stati visti gironzolare attorno al luogo del misfatto. Io, che ero un bambino di sei anni, fui tanto turbato dall’evento che ancora adesso mi fa male pensarci; fu uno dei momenti più brutti della mia vita.
Alle donne non rimase che organizzarsi, per prima cosa si accertarono che la penna non fosse per caso caduta dentro o vicino al camion. Ma la ricerca non dette alcun risultato. Continuarono a cercare per terra, nel cortile. A complicare la ricerca, il cortile era tutto coperto dalle foglie di mais messe ad essiccare per essere usate come foraggio per i bovini. Era proprio come dice il proverbio: cercare un ago in un pagliaio. Le donne disposte a ventaglio rovistarono tra le foglie per più di una volta, senza ottenere alcun risultato.
I loro volti erano coperte di gocce che cadevano a terra, ma non si capiva se era sudore o lacrime. Il comandante le incitava con urla, senza dar loro respiro, agitando un rasoio affilatissimo. Ma anche questo era inutile. Alle donne si aggregarono gli uomini più anziani mentre i giovani, che erano sbandati, non dovevano farsi vedere.
La notizia si era diffusa nel vicinato e altre persone arrivarono in aiuto. Tutto inutile, tutto vano, la penna non si trovava.
Nel frattempo gli adulti interrogavano i bambini, almeno quei pochi che non si erano nascosti. Anche l’interrogatorio non dava risultato. Il sole stava calando, il tempo passava inesorabile e l’ultimatum stava per scadere. La situazione era sempre più grave.
Fu a questo punto che arrivò una donna, dalla figura esile, che teneva nella mano tremante, la maledetta penna. Il comandante, appena la vide, divenne furioso e con modi bruschi iniziò ad interrogare la poveretta. Singhiozzando, la donna asseriva che suo figlio aveva trovato la penna per terra, lontano dal camion, e non l’aveva rubata.
L’ufficiale non fu convinto dalla risposta e volle che gli fosse portato il ragazzo. L’abitazione della donna distava mezzo chilometro e anche se fatto di corsa ci vollero alcuni minuti e l’attesa rendeva ancora più nervoso il militare. Alla fine ricomparve la piccola figura della donna disperata, sembrava ancora più piccola, tenendo per mano il figlioletto.
Senza proferire parole, il giustiziere, con una mano prese il braccio del bambino e con l’altra il rasoio. Un brivido corse tra i presenti, le donne disperate, con le mani nei capelli, imploravano perdono. La lama del rasoio si fermò a pochi centimetri dal polso. Con gli occhi spiritati e con voce infernale, il giustiziere pronunciò la parola “raus”. E tutti fuggirono.
Il bambino, incolume, forse non si rese conto del pericolo corso. Ma la mamma svenne e riavutasi poco dopo, con un filo di voce, esortò il figlio di non impossessarsi mai più della roba di altri. Barcollando, poi si incammino verso casa.
Ancora oggi, avendo assistito alla scena, mi chiedo se la cosa poteva finire tragicamente o se era solo un gesto intimidatorio messo in atto dal più forte. Posso anche comprendere che essendo in guerra egli doveva dare l’esempio, ma certe ferite tardano a guarire.