Lo yankee venuto dal cielo

Era un pomeriggio d’estate, quando un’auto di dimensioni inusuali entrò nel cortile della mia fattoria. Era da pochi anni finita la seconda guerra mondiale, se questa auto fosse del Consolato o dell’Ambasciata, non ve lo so dire, ricordo però che aveva la bandierina a stelle e strisce Americana, sul cofano.

Scesero tre persone: una signora vestita elegante di circa trent’anni, un signore, anche lui distinto, e un giovane, l’unico che parlava un corretto italiano. Chiese di parlare con il capo famiglia ovvero mio padre. La sorpresa e l’imbarazzo la fecero da padrone in quei primi momenti. Tutto si chiarì quando il giovane spiegò che volevano sapere se mio padre si ricordasse di un fatto tragico successo qualche anno prima, nel 1944, quando era caduto un aereo americano nella nostra azienda.

Il giovane si era presentato come l’interprete ed aveva poi presentato le altre due persone. La signora era la moglie di uno dei militari precipitati, l’altro signore era l’incaricato d’affari americano in Italia.

Tutti ci ricordavamo di quel fatto. Sparito l’imbarazzo, mio padre raccontò quello che era avvenuto.

Eravamo alla fine di maggio del 1944, quando verso le 10, una squadriglia di bombardieri americani era apparsa all’orizzonte, in direzione Verona da dove tornavano dopo un bombardamento effettuato sulla città.

Per noi bambini era uno spettacolo sorprendente ed eravamo tutti con il naso all’insù meravigliati. All’improvviso un aereo si staccò dal gruppo ben allineato, rimase quasi fermo nel cielo azzurro e poco dopo lo vedemmo prendere fuoco e scoppiare in mille pezzi. Era stato colpito in precedenza dalla contraerea.

In mezzo ai tanti rottami comparvero in cielo cinque o sei paracadute. Degli undici militari sull’aereo solo pochi erano riusciti ad aprire il paracadute. Anche se il vento era quasi inesistente i paracadutisti presero direzioni diverse per poi scomparire a terra. Non erano passate che poche ore quando i repubblichini, che stazionavano in zona, iniziano a setacciare le campagne. Nessuno si poteva avvicinare alla zona se non autorizzato.

Man mano che il racconto proseguiva, la signora sbiancava sempre più in viso, tanto che si rese necessario interrompere il racconto, offrirle una sedia e un bicchiere d’acqua e spostarsi all’ombra di un albero.

Per la verità il racconto veniva anche interrotto dall’interprete perché mio papà “a ghe sbrisava da parlare in dialetto”, iniziava a parlare dialetto. Era comprensibile, lui era nato nel 1899, quando in questo territorio si parlava solo il dialetto veneto e aveva poca dimestichezza con la lingua italiana.    

Mi ricordo che un paio di questi militari vennero ospitati, con grave pericolo, da persone coraggiose. Una storia circolata a fine guerra raccontava che un soldato era stato nascosto per tutto il tempo, fino alla fine della guerra, in un rifugio interrato sotto un porcile. In questo modo, la signora che lo ospitava, aveva facilità di alimentare il soldato senza essere scoperta. Il suo transito dalla casa al rifugio passava inosservata perché sembrava che l’operazione servisse per alimentare l’ “inquilino” del piano terra. Solo alla sera inoltrata l’ospite in grigioverde usciva guardingo dal suo nascondiglio. Scusatemi se mi sono allontanato dalla nostra storia.

Quel pomeriggio, i corpi degli aviatori morti vennero portati nel cimitero di Trecenta e piantonati. Dopo qualche giorno, uno dei miei famigliari, transitando per una sentiero costeggiato da filari di gelsi, venne colpito da un odore nauseabondo. Era il corpo di uno dei poveri caduti, in avanzato stato di putrefazione.

Ai pochi inizialmente presenti al racconto, se ne aggiunsero molti altri. Una scena così non capitava tutti i giorni. Ai miei cugini si unirono le loro mamme. Vedendo questa compagnia la signora si rinfrancò e cominciò distribuire dolci ai bambini e regali alle nostre mamme. Non c’è bisogno di spiegare la festa che coinvolse tutti.

Dopo questa parentesi, la scena si fece di nuovo seria. Fu chiesto alla signora il nome del marito, lei rispose “Giorg”. Le tre persone che erano passate per quel sentiero, mia sorella, mia zia e una mia cugina, si ricordarono che i gendarmi intervenuti subito dopo il ritrovamento, avevano letto questo nome dai documenti che lo sventurato aveva nel portafoglio e si ricordarono anche di aver visto delle fotografie, in cui riconobbero la nostra ospite. Riferirono anche l’impressione che ebbero in quel momento: si trattava di persone innamorate.

L’interprete riferì tutto e la bella signora, con le lacrime agli occhi, abbracciò le tre testimoni. Poi volle essere condotta sul posto del ritrovamento e dopo essersi fermata in silenzio per alcuni minuti,  scattò molte foto. Ne ricordo una in particolare, mio cugino, il più piccolo di noi, teneva in mano la foto del soldato morto. Era l’imbrunire quando la nostra amica americana  baciò tutti noi bambini e strinse la mano a tutti gli altri. Dopo avere preso posto in auto continuò a salutare con la mano, finché la nuvola di polvere sollevata dalla vettura la fece sparire dalla nostra vista. Oggi fatti un po’ di conti la signora dovrebbe avere novanta anni, se è ancora in vita la salutiamo, se invece ha raggiunto il suo “Giorg”, le diciamo, riposi in pace.           

Ecco i nomi di tre militari americani deceduti quella fatidica mattina, nomi conservati nel registro dei morti del Cimitero di Trecenta:

  • Chas Eduard Aneo, pilota di Philadelphia, matricola D.D.E.G.12027423, morto Luglio 1944, traslato in America
  • Lonis   A.  Rodriguez, matricola: 38331177.T .42-43/O, morto luglio 1944, traslato in America
  • George  B.  Miler, matricola 34689062.T.43-44.D, morto luglio 1944, traslato in America  

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