Borgoforte

Tra il fiume Adige e il piccolo fiume Gorzon, si trova un piccolo paese; Borgoforte.

Che sia un piccolo paese lo si può dedurre dal nome, è una frazione di Anguillara Veneta.

Fin da quando ero bambino questo Borgo mi ricorda qualcosa.

Se avete pazienza provo dirvi il perché!

Nel 1944, quindi dopo 8 settembre 1943, i Tedeschi preoccupati dalla piega che stava per prendere la guerra a loro sfavore, incalzati dalle truppe alleate e dai partigiani, si predisponevano a difendersi

costruendo fortificazioni. Le costruzioni venivano dirette e realizzate da una non meglio identificata T.O.T, nessuno mi ha mai spiegato cosa volesse dire questa sigla. So però che la comandavano i Tedeschi, per lo più anziani (i giovani erano al fronte,) e dai loro alleati, i Repubblichini italiani. Gli operai erano italiani reclutati fra gli sbandati, dopo l’8 settembre e non solo.

Fra questi un mio fratello, un mio zio, il mio futuro suocero e altri conoscenti.

Due i nomi di località che ricordo Borgoforte (PD) e Caprino Veronese (VR).

Gli operai erano alloggiati in stalle e fienili requisiti allo scopo. Il vettovagliamento era gestito da alcuni italiani. E’ bene dire che questi tenevano a stecchetto i commensali perché fossero più svelti, il resto scompariva. Sono passati tanti anni e quindi i miei ricordi sono sbiaditi, ma ancora leggibili. Pare che la dieta dei lavoratori fosse scarsa perché chi dirigeva le cucine, mentre i prigionieri erano assenti, provvedeva a  una parte delle vivande venisse trasferita in posti sicuri, lontano dai tedeschi. Avranno pensato che una volta finita la guerra, pasta, riso, scatolette, zucchero e chi più ne ha più ne metta, potevano venire buone per avviare una nuova attività.

Alle operazioni hanno assistito signori da me interrogati quando mi sono recato sul posto. Gli operai erano avviati al lavoro, che consisteva nello scavare trincee, bunker e posizionare cavalli di frisia. Tutte opere che non sono servite a niente come si è potuto costatare alla fine della guerra. L’esercito alleato si era attrezzato di mezzi talmente potenti che queste opere erano spazzate via come fuscelli.

Come già detto ho voluto vedere la zona, mi sono fatto accompagnare da un signore brizzolato, che bontà sua, pensava fossi un giornalista. Il posto più adatto per raccogliere informazioni è il bar del paese. Anche se il barista era nato nel 1948 si ricordava di un fienile, in mezzo alla campagna, sulle rive del Gorzon. Notizia utile per incominciare, perché i miei parenti mi avevano parlato di un fienile.

Il barista, per mostrare la sua cortesia ci fece accompagnare da un suo amico. Giunti sol posto, ringraziata la guida, ci presentammo ai padroni della fattoria, i Sig.ri Ferrari, persone cordialissime, ma che non sapevano niente, avendo preso possesso della fattoria nel 1952, otto anni dopo i fatti che ci occupavamo.

Dopo una breve consultazione i tre fratelli, ci indirizzarono dal sig. Giovanni Chioetti, dalla venerabile età di 84 anni, anche lui sbandato e quindi arruolato come i miei parenti, il quale mi accolse gentilmente.

Il suo racconto confermava quello che mi ricordavo, con qualche dettaglio in più. Per esempio il padrone era un Ebreo, il sig. Jacur Romanici e che i materiali che occorrevano venivano trasportato su carri trainati da buoi. L’informazione che mi colpì maggiormente fu che i poveri “cristi”, gli operai, erano trattati peggio dai connazionali. Egli asserì che, una volta finita la guerra, questi loschi figuri cambiarono “sponda” e rimasero sulla cresta dell’onda, occupando posti di prestigio.

Il sig. Giovanni si ricorda come trascorrevano la giornata. Una volta al lavoro, guai chi si fermava. Mio fratello mi ha riferito che di tedesco capiva solo due parole, “arbaite”e “saiza”. Poi tornavano al fienile a bordo di carri trainati da bovini e si lavavano nell’“albio” in cui si abbeveravano le mucche. Dopo il rancio serale si andava a dormire. I giovani trasgredivano moderatamente con i soliti scherzi, ma gli anziani dopo avere ingurgitato quella specie di sbobba

si ritiravano. A cosa pensavano? A casa, ai figli, ai loro poderi abbandonati.

Mio zio Antonio si appartava nell’angolo più nascosto del fienile “e zò zigare” (iniziava a piangere). Da notare che per la sua magrezza era stato esonerato dal servizio militare, ma a cinquant’anni era diventato idoneo.

Un giorno mentre erano traghettati sulla riva opposta del fiume, la zattera sbandò e lui volò in acqua e a voi immaginare! Mi dimenticavo di dirvi che i lavori da eseguire erano sulla sponda opposta del fiume e per traghettare si servivano di una zattera. Il conducente servendosi di una corda fissata a due appositi pali, sulle due sponde, col passamano evitava che la corrente portasse  alla deriva il carico e nello stesso tempo traghettava il mezzo sull’altra sponda.

Io con la mia fervida fantasia lo chiamai: “Il Caronte del Gorzon”. Come tutti i giullari vi dico che se la storia vi è piaciuta, bene, se no pazienza. Però vi prego di pensare un po’ a quei “poveri cristi”.

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