Ricordo di bambina

Mentre assistevo alla cerimonia del venticinque Aprile, festa della Liberazione, mi si avvicina una gentile signora e mi dice: “Dopo la cerimonia se vuole Le racconto un episodio da me vissuto da bambina”. Dato che sono curioso per natura è stato come “invitare un’oco a bere”.

“Ero una bambina, e quello che sto per raccontarle è un fatto successo nel 1945. Io allora avevo solo otto anni ma  ricordo tutto come fosse successo ieri.

La mia famiglia era composta da otto persone: mamma, papà, nonna, io e mio fratello, e due zii, di cui uno sposato.

Nell’agosto 1944, lo zio sposato era stato catturato dai Tedeschi e portato prigioniero in Germania. Come ho detto, eravamo in Agosto ed il caldo non dava tregua. Mia zia decise di accompagnare la nonna a far visita ad un terzo zio che abitava in un paese vicino. Strada facendo la loro attenzione fu attratta dal rumore di aerei Tedeschi.

Stanche del viaggio si ripararono all’ombra di un albero per riposarsi, quando si accorsero che gli aerei in picchiata incominciarono a bombardare, una bomba micidiale cadde poco lontano, mia zia morì  all’istante e mia nonna rimase ferita per fortuna non gravemente.

I miei genitori vennero a conoscenza di una circolare firmata dal governo Italiano e quello Tedesco che diceva, che in caso di morte della mamma o della moglie i prigionieri venivano rimpatriati,

si attivarono per procurare i documenti necessari, ma qui nacque l’inghippo; tali documenti dovevano essere firmati dal gerarca preposto. Ma questo non volle firmarli. Dopo tante peripezie, mio padre riuscì a farli firmare tramite un sacerdote di Rovigo amico di famiglia, ma intanto erano passati quindici giorni e di mio zio non si seppe più niente.

Finita la guerra solo pochi prigionieri tornarono, uno di questi riferì alla mia famiglia, che quando i documenti arrivarono, mio zio era stato trasferito al campo di concentramento di Auschwitz da due giorni dal quale tornò mai più. Lascio a lei immaginare la fine che avrà fatto.

Un giorno di novembre del 1945, in mezzo ad una nebbia fitta mio padre riconobbe il gerarca fascista caduto in povertà, mentre raccoglieva legna nella Tenuta Spalletti. Alla sua vista, preso dalla rabbia, corse a casa a prendere il fucile, con l’intento di uccidere il vigliacco.  Ma la mamma e noi bambini ci mettemmo a piangere, supplicandolo di non farlo.

Lui continuava a dire che suo fratello aveva fatto quella fine nei campi di sterminio per causa sua. Ripose giù il fucile dicendoci  che lo faceva solo per noi, perché dei fratelli era rimasto solo lui.       

Infatti l’altro fratello era morto in Russia e la nonna ne era morta di crepacuore”.

Con le lacrime agli occhi, la signora mi sussurrò “Questo fatto non lo posso dimenticarlo, anche perché mio padre me lo ripeteva sempre. Io sono ormai anziana, ma i dettagli li ricordo ancora nitidamente, come se fosse successo ieri”. La salutai abbracciandola, e ringraziandola, perché con il loro intervento impedirono di aggiungere lutto a lutti, anche perché quel losco figuro fece una fine miserevole.

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