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Il giorno dell’Armistizio

Il giorno dell’Armistizio avevo solo 5 anni ma ricordo quei momenti con nitidezza. Il 9 settembre molti soldati italiani stavano disertando. Io stavo giocando con i miei compagni nel cortile di casa quando d’improvviso arrivò un’auto militare dalla quale scesero due soldati mentre un terzo rimase alla guida. Questi rapidamente si diresse in un luogo nascosto della fattoria dove parcheggiò l’auto, l’operazione richiese non più di mezzo minuto. Solo allora riconobbi  il mio fratello maggiore, che credevo militare ad Udine, con due commilitoni più anziani. Tutta quella fretta era necessaria per non essere visti dai Tedeschi che presidiavano la zona o dai Fascisti fedeli al passato regime.

Vi renderete conto della situazione che si era venuta a creare: baci, abbracci, presentazione e tanta confusione. A me sembrava di sognare, vedevo la gioia dei miei genitori, mista a stupore, alle frettolose domande ricevevano risposte confuse: tutti volevano rispondere a tutti e si finiva che nessuno riusciva a capire. Provo ora io a riassumervi gli avvenimenti.

Il mattino dell’8 settembre, il Comandante di reparto riunisce i militari come sempre, ma quel giorno si avverte qualcosa di diverso. Il Generale si rivolge commosso ai soldati e con tono paterno dica più o meno queste parole: “Oggi è stato firmato l’armistizio, ma la guerra non è finita.

Anzi d’ora in poi sarà più dura perché il nuovo nemico sarà spietato sentendosi tradito. Potete restare o disertare. Che Iddio ve la mandi buona.” Dato il ‘rompete le righe’, ogni soldato prese la decisione che più riteneva opportuna. Mio fratello e i suoi amici già da qualche giorno avevano avuto sentore della cosa perché tutti e tre erano molto vicini al Comandante: uno era l’attendente, il secondo l’autista e l’ultimo il meccanico e factotum. Dal rompere le righe al saltare in macchina non impiegarono più di mezz’ora, si erano preparati per tempo. Proprio in quel momento il Generale convoca l’autista e gli ordina di portarlo a casa molto fuori città. Ma l’autista, un veterano con molta esperienza, risponde “Mi dispiace Signor Generale. L’auto l’ho in consegna io, Lei prenda il taxi. Noi tre ce la filiamo perché della guerra ne abbiamo piene le tasche. Tanti auguri  saluti”. Non so se il discorso fu proprio così, ma sicuramente gli assomigliava.

Detto ciò, partirono per un viaggio avventuroso e pericoloso che più avanti descriverò. Ora torno al mio stupore per il ritorno di mio fratello. La mia gioia e quella dei miei genitori era tanta ma era offuscata dalla preoccupazione per il secondo fratello, anch’egli partito pochi mesi prima per il militare. Ricordo soprattutto lo stato d’animo di mia madre combattuta tra la felicità nel riabbracciare un figlio e l’evidente preoccupazione per il secondo. Ma come in una favola, un’ora dopo vediamo arrivare a casa anche il secondo fratello, in bicicletta. Tanto era il caso di quei giorni che lui era tornato con gli stessi vestiti con cui era partito, non gli erano ancora stati consegnati gli indumenti militari.

Non potevano transitare per le strade principali. L’autista era un esperto pilota, carte militari alla mano, seguì scorciatoie, strade sterrate, attraversò paesini e borgate ed essendo su un mezzo militare erano oggetto di curiosità, era difficile passare inosservati. Ma loro dovevano a tutti i costi evitare i posti di blocco organizzati dai tedeschi.

Per tutte le evenienze si erano procurati un berretto e una giacca con gradi e decorazioni da generale fatti indossare al più robusto dei tre che stava seduto nel sedile posteriore. Come ultima risorsa, si erano procurati anche dei documenti, falsi naturalmente, che attestavano che il “generale” era in missione segreta. Il travestimento funzionò almeno un paio di volte grazie anche alla giovane età delle pattuglie tedesche (i veterani erano a combattere sul fronte). Ma a questo punto non bisognava sfidare la sorte: occorreva fare massima attenzione, occhi aperti, velocità sostenuta e retromarce improvvise.

Partiti da Udine la mattina, passarono vicino alle cittadine di Codroipo, Pordenonde, Sacile, Oderzo, casale sul Sile, Mogliano, Mirano, dolo, Piove di Sacco, Monselice e al tramonto si fermarono per dormire a Ca Morosini, un paesetto sulla riva dell’Adige. Il pericolo era ovunque, ma soprattutto nell’attraversare i fiumi perché quasi tutti i ponti erano presidiati. Attraversando i ponti meno importanti erano arrivati all’ostacolo più grosso: il ponte sul fiume Adige, un ponte molto lungo e ben in vista, attraversato di continuo dalle colonne di mezzi militari tedeschi. Qua il piano doveva essere studiato meticolosamente.

Non se ne parlava di abbandonare l’auto e attraversare di notte con il coprifuoco: era un suicidio. Decisero perciò di aspettare l’alba presso un fienile, ospiti di contadini. Non riuscirono a dormire molto a causa della preoccupazione. Alle prime luci dell’alba misero in moto l’auto e si avvicinarono al ponte, mantenendosi però nascosti dietro una casa. Avevano istruito a punti un ragazzino dall’aspetto sveglio a cui avevano anticipato una piccola compensa e diedero il via all’operazione. Il ragazzo sarebbe salito sul ponte e grazie alla sua giovane età nessuno gli avrebbe badato. Da una posizione in cui poteva vedere entrambe le rampe di accesso avrebbe aspettato il momento in cui nessuno fosse in vista e, come segnale, si sarebbe gettato in terra. Tutto era pronto, il ragazzo ben visibile sul ponte, il motore caldo e a pieni giri, la tensione dell’autista alle stelle. I secondi parevano minuti e i minuti ore.

Il sole cominciava ad illuminare la scena ed all’improvviso il ragazzo scomparve. In un baleno salirono sul pompe e lo attraversarono appena in tempo prima di vedere la testa dell’ennesima colonna militare sbucare dalla curva che immette alla rampa. Ebbero solo il tempo di vedere il ragazzo che li salutava felice di avere fatto il proprio dovere. Incuranti di essere stati visti, percorsero un tratto di argine e poi giù per strade di campagna ben conosciute da mio fratello, che ormai era vicino a casa. Così mio fratello arrivò alla fine a casa. Ma i suoi compagni avevano ancora un po’ di strada da fare. Si concessero un giorno di riposo continuando a pensare ai problemi del viaggio che li attendeva.

Loro dovevano arrivare in provincia di Modena e avevano il grosso ostacolo costituito dal Po. A questo ci pensò mio padre che conosceva molto bene il paese di Calto che sta sotto le rive del fiume. In quel tratto i due argini erano collegati da un traghetta il cui proprietario era amico di mio padre. Procurò la benzina per il motore dell’auto, fissò l’appuntamento con il traghetto ed il segnale di via libera (offrì anche il compenso, ma il traghettatore non ne volle sapere). All’alba del giorno, dopo addii, abbracci e raccomandazioni, arrivarono puntualmente presso l’argine del fiume, la zona sembrava abbastanza tranquilla e rapidamente salirono sul traghetto. Il tempo strettamente necessario per attraversare e approdarono sull’altra riva, un breve saluto con la mano e fulminei scomparvero dalla vista di mio padre che li aveva accompagnati.  Ritornando al paese, mio padre seppe che una pattuglia tedesca era passata chiedendo se qualcuno avesse visto un’auto militare. Ma nessuna aveva visto nulla, anche questo è un modo per difendersi.

Dopo alcuni giorni, mio fratello ricevette un telegramma che diceva. “TUTTO FINITO BENE. LA MARGHERITA HA PERSO I PETALI. RIFIORIRA IN PRIMAVERA. CIAO. GRAZIE”. Evidentemente si riferivano all’auto che non poteva essere trovata e la primavera venne, alla fine del 1945. Si presentarono a casa nostra con una FIAT 1100 messa a nuovo. Ricordo quel giorno perfettamente perché è stata una grande festa.

Racconti di prigionia

Questi eventi mi furono raccontati da due amici più anziani di me. Il primo è ora un valente musicista, suona e compone per il clarinetto, il saxofono e, soprattutto, il flauto. Lo ricordo con riconoscenza perché è stato il mio maestro di musica. Dopo l’8 settembre, egli fu catturato dalle S.S. a Sacile e portato a Triste al famigerato lager delle Risiere di San Saba. Processato con l’imputazione di disertore e sobillatore fu condannato a morte. Egli mi raccontò che in attesa dell’esecuzione, un giorno di Pasqua, con la desolazione nel cuore, si mise a suonare il flauto eseguendo l’Ave Maria di Schubert. Un maresciallo tedesco lo sentì e lo invitò alla sua mensa, dove poté mangiare in abbondanza (è tuttora una buona forchetta) e poi gli fu ordinato di suonare per gli ufficiali per quattro ore. Per il mio amico la salvezza venne letteralmente dal cielo grazie ad un bombardamento aereo degli Alleati sulle Risiere e chi ha potuto fuggire è riuscito a salvarsi.

L’altro testimone, dopo l’8 settembre fu catturato nei pressi di Carlovaz in Jugoslavia, fu deportato in Germania e costretto a lavorare in una fabbrica e deposito di armi. Il lavoro era massacrante e c’era poco da mangiare a tal punto che quando riuscivano a procurarsi delle patate o delle cipolle non le stavano certo a pelare per poter mettere qualcosa in più nello stomaco. Egli rimase in quel posto per un anno poi fu trasferito a Brema in una raffineria di petrolio con un nuovo stato giuridico: non più prigioniero ma “I.M.I.” ovvero Italiani Militari Internati. La sigla era stampata sulla schiena della divisa. Lì, la vita era ancora dura e la disciplina era sempre ferrea: ad esempio per lavarsi, in inverno, erano costretti ad usare seminudi l’acqua gelida di grandi vasche di marmo all’aperto e guai a ribellarsi.

Durante la settimana lavoravano nella raffineria, mentre il sabato pomeriggio erano liberi e quasi tutti lo occupavano lavorando presso le famiglie dei dintorni (tagliare la legna, falciare l’erba, vangare, ecc.). Quelle famiglie erano composte per lo più da donne e da bambini in quanto gli uomini erano al fronte a combattere. Gli italiani erano pagati con un po’ di pane, latte, patate in quanto anche per quella gente la vita in quel periodo di guerra era dura.

I prigionieri di altre nazionalità (francesi, belgi, olandesi) disprezzavano gli italiani che fino a poco prima erano alleati dei Tedeschi, li accusavano di collaborazionismo e, non di rado, rifiutavano loro perfino gli avanzi dei loro pasti (al contrario degli italiani, gli altri prigionieri avevano più cibo perché erano riconosciuti ufficialmente dalla Croce Rossa e ricevevano i pacchi con generi di prima necessità). Gli uomini a volte non perdonano neanche nella comune sventura.

Il mio amico mi raccontò che una sera, vinto dalla fame, decise di andare a rubare in un vicino campo di patate. Scoperto da un soldati tedesco mentre scavalcava il recinto con il secco in spalla pensò di essere spacciato, di fare la fine di quei compagni spariti nel nulla. Ma con sua sorpresa, il militare si girò dall’altra parte e fece finta di non vedere. Qualche volta il buon senso vince.

Nel Giugno del 1945 fu liberato dagli Inglesi con i pochi compagni sopravvissuti agli stenti. Il viaggio di ritorno durò 15 giorni perché i treni viaggiavano su linee semidistrutte. Gli fu consigliato di riprendere gradualmente il vecchio regime alimentare per permettere al corpo di abituarsi:  ci fu qualcuno che non seguì questo consiglio e morì a causa del gran mangiare e del blocco intestinale. Ci vollero molti anni per dimenticare e guarire dagli incubi e ancora oggi, dopo tanto tempo, sogna le sofferenze di quei momenti.

La Seconda Guerra Mondiale

Anche se la mia famiglia ha fatto molto per proteggermi, i miei primi anni di vita sono stati segnati da uno dei flagelli da sempre incomprensibile: la guerra. Avevo solo due anni quando l’Italia entrò in guerra. L’aria che si respirava in casa era triste, mio padre era stato esonerato per la sua età, ma prima il mio fratello maggiore nel 1941 e poi il secondo nel 1943 furono chiamati alle armi. Io non ero pienamente cosciente di quello che stava succedendo, ma quando vedevo la mamma leggere le lettere con certi lacrimoni mi prendeva la tristezza e le chiedevo cosa stava succedendo. Lei, accarezzandomi i capelli, mi diceva “Niente, niente. Continua a giocare.” L’ascoltavo ma non mi convinceva. Solo più tardi ho capito l’odissea di quegli anni.

Sono sempre stato del parere che il passato vada comunque ricordato e fissato sulla carta a vantaggio di chi scrive e di chi legge, sia che a scrivere sia uno studioso oppure uno come me, che coltiva il desiderio che certi situazioni non vadano dimenticate per sempre. Sono certo che i ricordi dell’infanzia sono meno esatti ma probabilmente più veritieri nella loro innocenza. La storia si legge sui libri, io invece mi soffermo sui fatti quotidiani che ho vissuto giorno per giorno.

Nacqui nella primavera del 1938, un anno prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, iniziata ufficialmente con l’invasione della Polonia da parte dei Tedeschi e poi terminata con la disfatta dei paesi dell’Asse: Germania, Italia e Giappone. L’Asse nasce il 27 Settembre 1940, ma l’Italia ne esce l’8 Settembre 1943 chiedendo ed ottenendo l’Armistizio e poi passando a fianco degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e della Francia. Ciò scatenò la reazione della Germania che mise in atto una massiccia caccia ai soldati italiani fedeli alla Monarchia e a Badoglio. Chi veniva  catturato e non accettava di passare sotto il comando Tedesco veniva condotto nei lager tedeschi da dove pochi tornarono vivi.