Il fatto che mi accingo a descrivere è avvenuto nel 1945. Si ha un bel dire che la memoria immagazzina dati e che l’età più proficua è quella infantile, ma a distanza di sessanta anni la scena principale è nitida nella mia mente tanta è stata la sua gravità. Però qualche carenza la si potrà trovare nei dettagli e mi perdonerete se nel racconto troverete qualche inesattezza. Per essere più preciso sono ricorso alle testimonianze di mio fratello Alfredo e al signor Galani Edmo, più anziani di me.
Tutti i giorni sentivamo parlare di bombardamenti sulle città vicine (Verona, Ferrara) e contro i ponti sui fiumi Po e Adige. Molti segni facevano prevedere che il ritiro delle truppe Tedesche fosse imminente. Le strade erano sbarrate da tronchi di albero conficcati per terra e lunghe colonne di mezzi di tutti i tipi erano diretti verso nord: autocarri, carri e carrette trainate da animali, auto per i superiori, biciclette e soprattutto la truppa a piedi. La conferma di tutto ciò veniva anche dalle confessioni fatte sottovoce da qualche militare stanco e sfiduciato, consapevole che la fine era alle porte, anche se la propaganda dei comandi militari non ne voleva sentire parlare.
L’uomo, re degli animali, che come loro è dotato di un sesto senso, quel giorno era in preda ad un presentimento. Era il 23 aprile, festa del patrono di Trecenta, San Giorgio, la primavera in tutta la sua bellezza si manifestava con gli alberi in fiore, i prati incominciavano a coprirsi di erba, gli uccelli che allietavano la scena con i loro canti. Noi bambini, dopo il rigore invernale, ci sentivamo felici nel riprendere i nostri giochi all’aria aperta. Tutto bene? No!
Si avvertiva nell’aria che qualcosa doveva succedere. Quel mattino noi bambini tornati a casa accompagnati da qualche adulto, dopo la Messa in onore del patrono, inconsci nella nostra innocenza, non comprendevamo appieno le raccomandazioni di non allontanarci dal rifugio antiaereo. Per capire meglio quei momenti è bene riassumere la situazione di quel periodo. Alla bellezza della natura si opponevano i tristi eventi in corso con la guerra che durava da cinque anni, portando lutti e distruzioni. La preoccupazione maggiore erano i colpi di coda dei belligeranti giunti allo stremo delle forze.
Quando la sorte le baciava in fronte ed erano ad un passo dal conquistare tutta l’Europa, le truppe tedesche non pensavano minimamente che un giorno il vento sarebbe cambiato. Ed invece il declino era venuto ed ora stavano effettuando una ritirata disastrosa. I ponti sui fiumi erano stati distrutti e sono comprensibili le difficoltà che i soldati incontravano.
Testimonianze affermano di avere visto attraversare il fiume Po con i mezzi più disparati. Poche erano le barche rimaste perché la maggior parte erano state messe fuori uso dai pescatori solidali con i partigiani. I soldati erano costretti ad usare zattere costruite con tronchi d’albero, cavalcando botti e mastelli da vino, alcuni perfino hanno tentato con ceste e “corghi” che, essendo fatti di vimini, non potevano sostenere il peso di una persona. La fretta di attraversare era tale che ogni mezzo era buono.
Il caos era indescrivibile. Le barche troppo cariche si rovesciavano, le zattere ingovernabili andavano alla deriva e gli occupanti erano un bersaglio fin troppo facile per i fucili dei cecchini, le botti rotolavano spinte dalla corrente e le ceste colavano a picco dopo pochi metri. Chi sapeva nuotare, a fatica, raggiungeva la riva, mentre la maggioranza era destinata a scomparire ed annegare travolta dalla forte corrente del fiume alimentato dalle forti piogge primaverili. I corpi senza vita che galleggiavano sulle acque limacciose si contavano a decine.
Se queste notizie, che mi sono state riferite, possono sembrare esagerate, quelle che vi riferisco ora, vi assicuro, rispondono a verità perché, anche se ero bambino, ne sono stato testimone.
In quei giorni salendo sulle rive del fiume Tartaro vicino a casa mia, potei vedere cadaveri di poveri soldati che galleggiavano verso il mare, e ricordo che tutti avevano la faccia rivolta verso l’acqua, dando a vedere solo la schiena, nella mia fantasia di bambino ho interpretato questo fatto in questo modo. Quei poveri ragazzi, dopo morti, non volevano guardare il mondo che li aveva illusi e rovinati. Ricordo ancora le parole di mia mamma, che guardando queste scene mi diceva: “Di loro dobbiamo avere pietà e pregare per loro e per le povere mamme che li piangono e non avranno il posto dove deporre un fiore”.
Dopo avere descritto il quadro fosco che si stava vivendo, riprendiamo il filo del discorso. Fin da mezzogiorno le truppe tedesche erano in agitazione, ricognitori sorvolavano la zona a bassa quota. Ne seguì un silenzio irreale. Alle ore 15 un rumore assordante ruppe la quiete momentanea, erano una dozzina di caccia bombardieri, che dopo avere effettuato le operazioni di attacco, mettendosi in fila indiana si abbassarono e incominciarono a sganciare il loro carico di morte e distruzione Avevano come obbiettivo il ponte della località “Calà del moro”, poco distante da casa mia.
In pochi minuti una tempesta di fuoco venne scagliata sull’obiettivo. Le case adiacenti si accartocciarono come fossero di carta, le bombe toccando terra deflagravano spargendo tutto attorno distruzione e morte. Anche se era l’obbiettivo, per ironia della sorte il ponte si salvò. Tutti ritenevano che il ponte non fosse un bersaglio importante trattandosi di un manufatto in ferro con la sede stradale in legno. Dopo si seppe che, in zona, era l’unico ponte segnato sulle carte topografiche in possesso dei militari Alleati. Anche se ero un bambino di sei anni ho ancora nitida nella mente la scena. Le alte colonne di fumo, il fragore degli scoppi, il bagliore delle esplosioni. La scena più toccante è stata dopo il bombardamento, quando i soccorritori, con ogni mezzo a disposizione, cercavano di salvare i poveri sventurati, guidati dalle grida e gemiti di dolore e dalle richieste di aiuto proveniente dalle macerie.
Verso sera, quando il silenzio si era fatto spettrale, estrassero dalle macerie i corpi straziati di una madre con i suoi due figli, che respiravano ancora, stretti l’una agli altri nell’ultimo abbraccio. Pochi istanti dopo spirarono. La commozione e lo sconforto prese tutti i presenti. Si disse che si erano allontanati momentaneamente dal rifugio, dove erano ospitati, per recarsi in casa a fare provvista di cibo e di indumenti. La sorte volle che vi trovassero la morte. Ricordo ancora il nome della mamma: Marta.
Vedendo i soccorritori sfiniti e in preda ad una straziante commozione, constatando che i loro sforzi erano stati vani, capii per la prima volta quanto dolore possa procurare la guerra, quanto questa sia frutto dell’egoismo e sopraffazione di pochi uomini e che quasi sempre a farne le spese siano gli innocenti e i più indifesi.