Constatazione e conferma

Noi abitanti dell’alto Polesine abbiamo imparato un dialetto ibrido, non è ferrarese, non è veneziano, tantomeno mantovano. E’, per usare una parola in voga, trasversale.
Per esempio mio padre è veneto, la mia mamma mantovana, di un paese che confina col ferrarese, potete quindi immaginare che razza di dialetto sia il mio!
Ho lavorato per vent’anni in un’azienda che commerciava materiali edili, e lo stesso manufatto era contraddistinto con nomi diversi: blocco, ramenato, cavaloto, soraus, architrave e dalla richiesta fattami, capivo subito il paese di provenienza del cliente.
Chi mi chiedeva il “blocco” arrivava o abitava nella zona verso Verona, chi mi chiedeva il “ramenato” lavorava nel Medio Polesine, il “cavaloto” era dei paesi limitrofi. Il “soraus”, invece lo richiedeva chi risiedeva a Ficarolo o dintorni. Chi invece parlava italiano, lo chiamava col nome corretto di “architrave”.
Cito un esempio significativo: un giorno si presenta un sacerdote di mia conoscenza e mi chiede un sacco di “palazola”. Dentro di me penso “Latino non mi sembra e un nome religioso nemmeno”. Per cui per poterlo servire, mi sono fatto spiegare, con altre parole, cosa voleva veramente e questi mi ha risposto che desiderava semplicemente calce da muro. Questo sacerdote ora è un alto prelato che vive a Roma e spero non abbia più bisogno di sacchi di “palazola” poiché immagino come il povero commerciante romano sicuramente in imbarazzo anche più di me.
Altro atteggiamento curioso è quello della gente che parla il dialetto della sinistra del Po, nella zona del Ferrarese. Spesso chiedevano un oggetto in dialetto per poi ripeterlo immediatamente dopo in italiano: ad esempio “Al m’daga, mi dia…”. Che rabbia mi facevano, davano sempre per scontato che io non li capissi e in qualche modo mi facevano passare per ignorante.
A confermare la mia tesi voglio proporvi due modi di interpretare il dialetto nella nostra zona. Le seguenti maniere di dire mi sono state trasmesse da mio papà, anche lui fornito di un carattere estroverso come il mio, ed è mia opinione che non è sempre vero che il nostro modo di parlare rispecchiasse quello della nostra mamma. Infatti il mio dialetto è più simile al dialetto paterno. Per finire, ecco due piccole filastrocche, la prima in puro dialetto ferrarese mentre la seconda, nella lingua paterna, ossia veneta.

Pubblicata in Experienzia, giornale Università Popolare Polesana, anno 2004

Pubblicato su il Mensile L’ADESE

Cinque ragazzi ed uno scettico

Quando leggerete questo titolo vi chiederete del suo significato. I cinque ragazzi erano compagni di scuola e di scorribande serali. Lo scettico ero io ed eravamo capitati a raccogliere la frutta nell’azienda agricola Val di Fiocco a Zelo. Fin qui nulla di male, il problema nasce a stare insieme: il direttore dei lavori non filava bene con i giovani e quando li ha visti a deciso di appiopparmeli: eravamo organizzati in due carri “raccogli frutta” , uno con la squadra descritta sopra e l’altro con personale adulto e teoricamente più affidabile.
Confesso che il mio primo giudizio è stato una tacita esclamazione: “Sono conciato per le feste!”.
A mio favore avevo la fiducia espressami dal proprietario, la giovane età dei ragazzi ed il fatto che non mi è mai piaciuto fallire. Ovviamente l’altra squadra era in attesa del nostro o del mio fallimento disastroso.
Ma ora facciamo conoscenza dei sei: cinque maschi ed una gentile signorina con qualche anno più di loro: Michele, Simone, Marco, Paolo, Fabrizio ed Annalisa. Cinque erano diplomati ed uno era studente universitario, e questo era un punto a mio favore, era più facile farmi capire.
Michele era il più estroverso, carattere esuberante e generoso, col pallino per la vita militare: lo si vedeva dal modo di vestire, indumenti mimetici, borraccia e berretto e anche dai discorsi che faceva. Il suo amico inseparabile, Marco, era molto equilibrato, e proprio perché era così si capisce come potevano andare d’accordo. Arrivavano sul posto di lavoro insieme su una Cinquecento rossa, rappezzata ed alquanto sgangherata.
Simone li sovrasta in altezza e saggezza, era il mio gioiello, figlio di un mio amico, era il più disponibile ad eseguire gli ordini.
Paolo l’intellettuale di turno, fisicamente meno dotato ma con tanta buona volontà. Ed in più i suoi discorsi davano spessore alle conversazioni. 
Fabrizio ultimo dei cinque, l’unico che avrebbe potuto lavorare nell’azienda di famiglia, preferiva venire a lavorare con gli amici. Era lento, ma diceva di essere sempre tutto accelerato.
Ciliegina della torta, Annalisa, la nostra maestrina, la cui femminilità dava gentilezza alla compagnia.
Alla guida del carro c’era Lucio che spesso si appisolava e fraintendeva gli ordini: quando doveva andare avanti si fermava e viceversa ed era bersaglio di scherzi e frizzi.
Questo era il materiale umano che avevo a disposizione ed occorreva farlo funzionale. Per esperienza sapevo che fare amicizia avrebbe dovuto dare buoni frutti. Mai dare ordini autoritari, chiedere sempre “per piacere”, non rimarcare gli sbagli se non per correggerli, sorvolare su qualche ragazzata, ma mai farsi mancare di rispetto. 
Nel giro di due giorni tutto funzionava alla perfezione. Lavoravamo, sudavamo, scherzavamo, ma non mollavamo. Si era formato un gruppo ben affiatato che si rispettava e destava l’invidia dell’altra squadra. Il mio scetticismo verso questi giovani era sparito. La giornata era di otto ore con pausa a mezzogiorno, e sia al mattino che alla ripresa pomeridiana era una festa di allegria e voglia di ritrovarsi. Il lavoro consisteva nel raccogliere la frutta, selezionarla, metterla nelle casse e, raggiunto il numero sufficiente, formare una “pedana”. Tutti a turno sapevano fare questo compito ma la più brava era Annalisa, la più rispettata in tutti i sensi, e tengo a sottolineare “rispettata” anche se a sentirli parlare parevano tutti dei “sciupa-femmine”. Si arrivava a sera stanchi, ma allegri. Durante il lavoro si parlava, si scherzava, senza mai fermare le mani.
I ragazzi avevano tutti frequentato la stessa scuola e avevano avuto gli stessi professori. Li sentivi parlare di come prendevano in giro il professore ex-sessantottino, dicendo “piccì” ogni volta che starnutivano. Oppure di come uno di loro, imitando perfettamente la voce di un altro professore, faceva scattare gli studenti più giovani. Si facevano anche discorsi più seri oppure ci si raccontava qualche barzelletta, anche un po’ spinta ma per questo più saporita.
Il nostro motto era lavorare e rendere senza annoiarsi. E dimenticavo di dirvi che quello che era di uno, era di tutti, i scambiavamo merende e bevande. 
Da queste conversazioni ne sono uscito più ricco anch’io, ho aggiornato i gusti musicali e letterari ed ho conosciuto i vizi e le virtù del mondo dei giovani. Una bella esperienza che difficilmente dimenticherò.
E come sempre, tutto è destinato a finire, e negli ultimi giorni l’aria si era fatta pesante, ma nessuno lo ammetteva. Arriva il momento di salutarci, i soliti ringraziamenti, le promesse di ricontrarsi, consapevole però che la vita ha il suo corso e le strade si dividono.
Ma ecco al chicca finale. I sei si appartano dal grosso della compagnia e con un cenno mi invitano ad aggregarmi. L’intellettuale, come chiamavamo Paolo, estrae da sotto il giubbotto un libro ed insieme me lo consegnanoin segno di riconoscenza per averli trattati da adulti. E lo meritavano, eccome lo meritavano…
Ancora oggi a distanza di dieci anni, il gesto mi commuove come allora. Ricordo le sole parole che sono stato in grado di pronunciare: “Via auguro che la vita vi riservi ogni bene.”
In dieci anni sono accadute molte cose. Michele ha subito un grave incidente, durante un lancio il paracadute non si è aperto correttamente e gli ha procurato gravissime lesioni, tanto che si è temuto che rimanesse paralizzato. Ma grazie alla sua forza d’animo e alla sua tenacia, per fortuna gli è andata bene. Ora lavora in Russia. Tra le sue qualità, c’era l’amore dell’avventura e lo dimostra col lavoro che ha scelto.
Simone si è sposato e lavora in provincia di Verona.
Annarita si era recata in Germania per lavoro, a vendere gelati, e lì ha trovato l’amore e si è sposata e vive felicemente, spero. 
Marco, per quel che so, è fidanzato e lavora in provincia di Padova. Degli altri ho perso le tracce, ma sicuramente si sono sistemati bene, è quello che spero.
Ancora oggi, quando incontro qualcuno di loro è una festa.

Il cammino della speranza

La prima cosa che si nota sono gli occhi,
occhi luminosi, solari,
occhi pieni di speranza,
se le chiedi: “Cosa ti ha convinto a partire dalla tua terra”?
Gli si velano di tristezza e par che dicano:
“Non vedi, sono una mamma,
al mio paese la sorte per il mio bambino era la morte.
La causa: la fame, le malattie, le persecuzioni.
Chi governa non trova i soldi per dare da mangiare,
ma trova quelli per comperare le armi.
Ho speso tutti i miei risparmi,
per un passaggio su ad una carretta del mare.
Ti prego, anche se non ho la tua religione,
io posso “sacrificarmi”,
ti scongiuro salva mio figlio in nome del
tuo Dio”.

Barbanti Monsignor Filippo

Nato a Castelnovo Bariano l’8 aprile 1915, fu ordinato sacerdote dal  Vescovo Guido Maria Mazzocco a Rovigo, nella chiesa del Seminario, il 16 giugno 1940. Dopo venti giorni fu nominato vicario cooperatore a Trecenta, era il 6 luglio 1940, e vi rimase fino al 26 settembre 1947.
Dopo tre anni passati a Gavello come cappellano, approdò a San Bellino, prima come vicario sostituto e poi come Arciprete il 29 ottobre 1951.
(Si tenga presente che in questo paese si trovano le spoglie di S.Bellino Patrono della Diocesi ). Forse è stato scelto perché le erano state riconosciute capacità notevoli, dotato di un carisma particolare, ben presto si fece apprezzare dai parrocchiani e da quanti lo conobbero.
Queste sue doti gli valsero la nomina a Canonico onorario della Cattedrale “Durante Numere”. Per 39 anni guidò con amore questa comunità fino il 1990.
A seguito della rottura al femore, fu accolto nella Casa S.Antonio di Trecenta, dove morì il 22 luglio 2000. Lo ricordo come un caro amico, fu il mio cappellano, ogni volta che mi recavo a salutarlo ne traevo un enorme beneficio, l’incontro terminava sempre con la sua benedizione.
Spesso nelle nostre conversazioni era ricordato mio nonno Teodoro.
Mi raccontava che quando era cappellano a Trecenta, erano legati da una buona amicizia e capivo quello che più gli era rimasto impresso di mio nonno, era il suo buonumore. Si divertiva  raccontarmi che in una loro conversazione uscì con questa cavatina: “Quando vado in cantina e al mio tocco la botte canta, a me viene da piangere…. Perché? Perché vuol dire che è vuota”! Questo era il mio e vostro amico Trecentani: Don Filippo.
Ora è sepolto nel cimitero di San Bellino.

pubblicato su LA  VOCE  DI  S. GIORGIO, settimanale  parrocchiale  di TRECENTA

Ballata nostalgica di un anziano

Sono un matusa, sono un anziano,
e per questo son calcolato un essere strano.
La mia categoria è spesso dimenticata,
e di quando in quando viene ricordata.
E’ successo in questo agosto in modo perentorio,
quando per il caldo in molti sono finiti all’obitorio.
Tutti a gridare: “I vecchi, soli non vanno lasciati”,
invece il giorno dopo vengono dimenticati.
Non importa abbiano speso la loro vita a lavorare,
da qualche parte si sente che la pensione le vogliono tagliare.
Si sono dimenticati della parola “solidarietà”,
e si sentono dire: “Cosa pretendi alla tua età”.
“Pretendiamo di essere rispettati,
perché per tutta la vita ci siamo sacrificati”.
Voi giovani siete ancora in tempo, non dimenticatevi degli anziani,
perché, nelle stesse condizioni vi troverete fra pochi anni.
E’ voi governanti pensateci bene a tagliare i fondi per la sanità,
approfittare dei più deboli è una viltà.
Di morire noi non abbiamo paura,
perché negli anni ci siamo costruiti una scorza dura.
Notiamo che alla nostra festa manca qualcuno, con vivo rincrescimento
lo perdoniamo, perché col Paradiso ha avuto un appuntamento.
Però non dobbiamo essere tristi, e allora facciamo festa,
e comportiamoci bene nel tempo che ci resta.
Per chi ha agito bene il risultato è sicuro,
Dio gli darà un premio felice e duraturo.

28 settembre 2003 (Festa  dell’anziano)

Baccalà

A proposito de baccalà,
a Tresenta sen in pochi ca lo sa.
In te l’angolo vezin al Palazon ghiera un paracaro,
che a Carlin al ghiera caro.
La zobia al batea al baccalà,
che al venare i pareti i avaria magnà.
Si parchè i disea cal iera  magnare da  pareti,
inco con cuel cal costa ghe vole al portafoio de Spaletti.
Sarà stà la fame,quanto al iera bon, che gusto,
ricordare riconoscente me pare giusto.
Che quando a iera un putin,
sa se volea magnare al baccalà bon, bisogna andarlo a comprare da Carlin.

Le arance della salute

Sgombriamo subito il campo a riguardo di questo giudizio,
e non pensiamo se chi segnala questo, lo faccia per vizio.
Sono un autentico sostenitore,
ed ammiro gli organizzatori, perché si fanno onore.
I fondi che i governi mettono a disposizione della ricerca,
a dir poco sono una cosa carnevalesca.
Ben venga allora l’iniziativa volontaria e gratuita,
ma mi domando l’onestà dov’è finita.
Invece di mettere a disposizione le arance della salute,
si trovano a manipolare delle cose marce e brutte.
Ho visto le responsabili avvilite, questa è la verità,
e mi hanno detto: “Perderemo tutta la nostra credibilità.
Per pochi disonesti e senza testa,
roviniamo il lavoro di gente onesta”.
Io dico: “Volontario non devi mollare,
sono i furfanti che si devono vergognare”.
Chi ha il compito di indagare, faccia presto,
e smascheri il malandrino disonesto.
Un appello è d’obbligo per chi si è sentito ingannato,
non smettere di fare del bene che alla fine sarà gratificato.
Con l’aiuto di tutti, la ricerca ha fatto passi da gigante,
non fermiamoci, andiamo avanti, questo è l’importante.
Chi con questi imbrogli danneggia l’ammalato,
da Dio sarà per sempre condannato.

Gli annoiati

Chi va in chiesa per pregare,
spesso sente sussurri e parlottare.
Non è improbabile che mentre l’omelia stai ascoltando,
venir disturbato dalla solita ciarliera che sta parlottando.
Se per caso la inviti con garbo a far silenzio e meditare,
si schernisce e ti risponde “Che mondo, non si può più parlare”.
Se è un uomo il disturbatore e il caso non è raro,
per non essere visto a conversare, dietro una colonna si mette al riparo.
Tutti gli argomenti per passare il tempo sono trattati,
quando la S. Messa è troppo lunga reclamano ed escono arrabbiati.
Un consiglio amico, in chiesa, tieni un contegno composto e moderato,
non comportarti come fossi al supermercato.
Nelle feste importanti: Natale, Pasqua, Capodanno,
la chiesa è piena, ma non lasciati trarre in inganno.
Molti si recano in chiesa per tradizione,
tuttavia quello che manca è la devozione.
Vedere tutto questo fa male al cuore,
stiamo attenti a non prendere in giro nostro Signore.
Per fortuna la maggioranza son anime buone,
e da queste dobbiamo prendere lezione.
La chiesa è il luogo dove si va a pregare,
evitando di dare il brutto esempio e… disturbare.

Annibale Monsignor Giuseppe

Nato a Santa  Sofia di Lendinara il 10 marzo 1876. Morì improvvisamente il mattino del 21 maggio 1965. Fu ordinato presbitero  nella chiesa di S. Andrea di Adria. Ora è sepolto nel cimitero di Rovigo nella tomba del clero.
Dopo essere stato vicario spirituale e Arciprete a Salvaterra, nel 1913 andò quale parroco alla Tomba di Adria, di là fu trasferito a Trecenta, prima come vicario spirituale e poi come Arciprete dal 1915 al 1933. Era il periodo  turbolento passato alla storia col nome di “la Boje”.Oltre tutto, a fare di questo periodo un momento difficile per la chiesa locale, contribuì il prof. Nicola Badaloni fervente socialista, la cui dottrina attrasse molti cittadini locali e polesani .
Quindi era necessario un sacerdote deciso e capace. Pare, da quello che raccontano gli anziani interpellati, che Don Annibale (soprannominato “fiocco rosso”, dal fiocco che portava sulla berretta) abbia svolto in maniera lodevole il suo compito. Tanto che ancora oggi  chi lo ha conosciuto lo ricorda con devozione e rispetto. Come sempre in questi casi la sua opera era ben vista da una parte dei cittadini e osteggiata da altri.
Raccontano di discussioni accese e vigorose, ed era in questi casi, che emergeva la sua personalità. Era un buon oratore e aveva l’hobby della pittura , il suo lavoro più importante è stata la decorazione del teatrino parrocchiale(ora soppresso e adibito a magazzino). Altro bel lavoro è un soffitto decorato, e tutt’ora esistente in canonica che vale la pena di vedere.
Collaborò con i signori Marzari per la ricostruzione della chiesetta di Barguerina dedicata alla Madonna di Loreto. Pare che con l’amministratore e per incarico dei sig. Marzari, si sia recato di persona ad acquistare la statua della Madonna a Loreto. Da segnalare anche la vena poetica da cui era attirato.
Sue sono le parole dell’inno a San Giorgio, musicato dal Maestro A. Fornasari. Venuto in disaccordo con certi signorotti del paese, (evidentemente aveva esaurito il suo compito e non serviva più), rinunciò alla parrocchia e si trasferì a Rovigo come sacerdote libero.
Nel 1938 fu nominato canonico effettivo dell’Insigne Collegiata di Santo Stefano del Duomo di Rovigo.
Per molti anni celebrò nella chiesa del cimitero del capoluogo. Pubblicò molti sussidi per la predicazione. Torno a dire che a distanza di settanta anni, i pochi che lo hanno conosciuto e ancora viventi, ne parlano con entusiasmo e venerazione.  

pubblicato su LA  VOCE  DI  S. GIORGIO, settimanale  parrocchiale  di TRECENTA

L’amicizia

Da quando ragiono ho imparato e mai lo ignoro,
chi trova un amico trova un tesoro.
Con tutte le mie forze ho dato amicizia,
ma quasi sempre ho raccolto avarizia.
Ho cercato amicizia sui banchi di scuola,
ma di amicizia solo qualche parola.
Fattomi uomo, fra gli operai ,
ma quale amicizia, solo dei guai.
L’invidia era il pane quotidiano,
vallo capire il genere umano.
A militare dove sono andato,
li un vero amico ho incontrato.
Ma come sempre quando viene il gelo,
questo mio amico è morto e ora sta in cielo.
La vera amicizia è una cosa rara,
mi disse un giorno una persona cara.
“Quando la incontri come l’amore
fagli posto dentro il tuo cuore”.
A questo punto, pensavo di essere iellato,
invece due amici ho incontrato.
Sono mia moglie, sono mio figlio,
anche se in ritardo Ti ringrazio Dio buono,
e di essermi lamentato Ti chiedo perdono.