Si va dal nonno

Avevo imparato da poco ad andare in bicicletta ed un sasso traditore mi fece volare atterrando sui ciottoli. Povere ginocchia! Ma io feci finta di niente perché il giorno prima mia mamma aveva detto che domenica si sarebbe andato a trovare il nonno.

Non potevo perdere un’occasione simile. La distanza non era tanta, ma la strada era pessima. Il nonno abitava a Felonica Po un paese del basso mantovano.

Quel giorno mi alzai di buon mattino, colazione leggera e su in sella. Dopo le prime pedalate le ginocchia iniziarono a farmi male, anche se io cercavo di ignorarle. Hai che dolore! Ogni scossone una fitta.

La mamma premurosa chiedeva: “Come vanno le ginocchia?”. Ed io rispondevo “Bene, bene Mamma”. Che bugia!

Per arrivare alla meta si doveva transitare per il paese di Calto, al posto che tutti chiamavano il “porto”. Lì si doveva attraversare il fiume Po su appositi battelli o sul traghetto.

Poco prima di arrivare, come le altre volte, mia mamma si metteva gridare ad alta voce “Ooooh, ooooh”. Era il segnale per avvisare i traghettatori che se non fossero ancora patiti di aspettare i nuovi clienti.

Dopo la salita faticosa, si arrivava sull’argine ed ecco una visione stupenda. Il re dei fiumi d’Italia, il Po, docile se il corso era tranquillo, tremendo se in piena.

Una volta sistemato a bordo, la mia fantasia si poté sbizzarrire. Mi venne in mente Caronte, il traghettatore di anime di cui la mia maestra aveva da poco parlato a scuola, o Fetonte, il dio che precipitò nel fiume Eridano con il carro del sole e i cavalli imbizzarriti.

Nel frattempo il traghetto attraccava alla sponda mantovana. Salendo sull’argine mi si presentava Felonica Po, appollaiata vicino all’argine.

Mia mamma salutava alcuni parenti che abitavano lì vicino e, dopo gli ultimi due chilometri di strada, si arrivava alla fattoria del nonno  chiamata “Al pradon”.

Baci e abbracci. Ma le ginocchia facevano male e tutti mi chiedevano come era successo. Il clima cambiava quando le mie zie premurose mi invitarono a sedere con davanti pane e abbondante formaggio grana, quello buono. Guardando tanta “grazia di dio” mi veniva voglia di incartarne alcuni pezzi per i giorni seguenti. Non se ne vedeva a casa mia, dove non si pativa la fame, ma non c’era tanta abbondanza.           

Il chiacchiericcio cessava quando compariva sulla porta il nonno, uomo austero, di poche parole, ma di una grande bontà. Portava i segni di una una vita dura e sofferta. Era rimasto vedovo a quarant’anni con sette figli.

Ricordo di quella volta che gli portammo la notizia che era diventato bisnonno e gli domandammo come si sentisse in tale veste. Ci rispose: “Diventare bisnonni è come diventare Papa. Restano pochi anno da vivere.”

Al suo arrivo, salutava la figlia, che era la più anziana dei sette fratelli e mi accarezzava i capelli (allora ne avevo tanti) dicendomi: “Come stai piccolino?”. Io ero il più giovane dei nipoti.

Mia mamma non finiva mai di parlare con le cognate ed io di giocare con i cugini.  Ma a tardo pomeriggio si doveva tornava a casa e quella volta, dovevo affrontare di nuovo il tormento alle ginocchia. Ma quanta felicità.

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