Ruoli sbagliati

In un luogo  depresso della Val padana,
si verifica un cosa anomala e strana.
Certi intellettuali hanno cosi poca coltura,
per loro era meglio che si fossero dati all’agricoltura.
Trovi invece operai e contadini,
con certi cervelli svegli e sopraffini.
Non è raro sentire dire “taci contadino”
Il furbo che parla se si specchia si trova davanti un poverino.
Ma essendo lui uno sfacciato,
nei posti riservati è chiamato.
Come si può capire, con la tasta che ha,
dove va finire questa comunità.
Con questo chiaro di luna,
le forze migliori altrove vanno a trovare fortuna.
Il modo giusto per  risollevare  l’ambiente,
è di mandare a casa l’inefficiente.
Lo so tutto questo è pura fantasia,
ma solo così si salverebbe il paese dalla carestia.
La società ha bisogno di menti illuminate,
e non teste vuote anche se laureate.
Solo così il luogo oggi depresso,
domani vedrebbe benessere e progresso.

Rivisitazioni di un fenomeno vissuto

Mi trovavo a conversare con vecchi amici quando prese la parola un conoscente, che era nato a Trecenta e che a vissuto i primi anni in paese e poi è dovuto emigrare a Genova per ragioni di lavoro, tornato  pensionato, asseriva che trovava difficoltà a conoscere certi  vecchi paesani coetanei, mentre ne ricordava bene certi altri. Fin qui niente di male, lo strano era che conosceva bene quelli di un parte del paese, quelli del centro, mentre aveva difficoltà per quelli di periferia. Non essendo la prima volta, ne il primo che sento constatare questo, espongo al riguardo una mia tesi che ha un certo fondamento.
Nei piccoli paesi fino agli anni cinquanta-sessanta (non è che ora le cose siano molto cambiate) la popolazione era divisa in più categorie: ricchi-poveri, istruiti-semi analfabeti, possidenti-nulla tenenti, tutte queste categorie si dividevano ulteriormente: in cittadini quelli che gravitavano attorno al paese, e  i cafoni relegati nelle campagne, chi ha decretato queste regole non si sa, ma esistevano e se avete un po’ di pazienza provo spiegarle con alcuni esempi, io che le ho vissute sulla mia pelle.
Da tenere presente, le differenze sociali sparivano fra gli abitanti del centro quando dovevano fronteggiare i periferici, e arbitrariamente si arrogavano diritti e previleggi a loro piacimento. Provo esporvi alcuni fatti che mi sono successi personalmente e in compagnia: il primo che mi viene in mente è a dir poco incivile se non di peggio, noi bambini per tornare a casa da scuola usavamo un sentiero in riva all’argine del fiume Tartaro (usavamo tale strada per due motivi, uno perché era ombreggiata, due perché d’estate ci permetteva di levarci  i sandali che chiamavamo “fratin” per risparmiarli). Quel giorno la compagnia era composta da sette-otto bambini e bambine si parlava e si rideva, quando da un cespuglio sbucarono tre “spiazzirotti” abitanti di un via a quei tempi ritenuta poco educata: “le Cavalle” la loro età era maggiore di qualche anno alla nostra, giunti in nostra presenza avanzarono l’imposizione che alcuni di noi, i più grandi assaggiassero i loro escrementi appena prodotti, al nostro naturale rifiuto passarono a obbligarci con la forza, come sempre per fortuna è arrivato lo “Zorro” di turno, un nostro amico più grande di noi, che avendo terminato l’obbligo scolastico, tornava a casa anche lui dopo la mattinata passata come garzone da un calzolaio. Visto la scena non ha esitato un solo momento a gettare nel fiume i tre prepotenti con i pantaloni ancora a mezza gamba. Ha fatto anche di più, li ha ammoniti che se la cosa si fosse ripetuta, oltre il bagno avrebbero assaggiato il sapore di un bastone. Forse voi non crederete ma non siamo più stati molestati.
Il resto delle mie argomentazioni si riferiscono a fatti che mi videro protagonista in prima persona, frequentavo l’oratorio, dove tutti a parole dovevamo avere i stessi diritti, questo era sancito da un regolamento, ma come si sa in tutte le occasioni della vita c’è sempre qualcuno che vuole fare il furbo.
Una delle regole stabiliva che se c’erano più ragazzi che volevano giocare a ping-pong, sia che si giocasse il singolo che il doppio finita la partita si doveva lasciare il tavolo alla coppia seguente.
Chi ha giocato, sa che le partite finivano al raggiungimento del ventunesimo punto.
Arrivo con un mio amico e trovo il tavolo occupato, la partita era sul 12 pari, dopo un po’ le sorti erano cambiate, 17 a 15, a questo punto qualcosa ci ha distratti e ci accorgemmo che dopo tre minuti erano solo sul 15 a 13, li abbiamo ammoniti che non facessero i furbi e che terminassero la partita, il consiglio non venne ascoltato e continuarono la manfrina. Dopo un’ulteriore sollecitazione ci sentimmo rispondere: “Cosa volete voi che siete solo capaci a zappare la terra”, avete capito bene erano due “spiazzaroti”.
Al sentire queste parole mi è venuta la mosca al naso, (non so il perché in questi casi mi viene una forza!). In un baleno ho preso per il bavero il più piccolo, per ovvie ragioni, invitandolo a ritirare le parole poco prima pronunciate, non solo non le ha ritirate, ma ne ha aggiunte delle altre che non nomino, non ha neppure terminato l’ultima sillaba che si è visto arrivare due ceffoni sul viso delicato da signorino sfasciato, le mani erano quelle ruvide di un contadino, le mie. Dopo questo episodio siamo diventati amici, e solo più tardi  si è ricreduto confidandomi che quei ceffoni se li era meritati. L’episodio  che vi racconto ora è successo molto prima, si stava giocando a palline in Piazza S. Giorgio, il solito furbo della stessa risma del primo ci impediva di giocare, dopo due o tre sollecitazione a smetterla, senza ottenere risultato, cercai di prenderlo ma lui  fuggi via come un razzo, lo inseguii per regolare il conto, in fretta si infilò in un cancello li adiacente, vista l’impossibilità di raggiungerlo le sferrai un calcio nel sedere tale che lo fece ruzzolare per terra. A voi immaginare le condizioni dei suoi ginocchi. So di non essermi comportato bene ma cosa volete farci, era più forte di me. Per completare il mio argomentare quello che non potevo sopportare era il comportamento di certe maestre che facevano le differenze, stravedevano per certe pupattole e pupattoli e snobbavano i ceti ritenuti a torto inferiori. Ringrazio Dio di avermi dato una maestra molto diversa da queste, una vera educatrice. La maggior parte di quei damerini sopra menzionati, se hanno raggiunto certi traguardi non è stato per la loro testa ma per il portafogli dei loro genitori. Conclusione, il  signore che si ricordava di alcuni e non di altri  può trovare la risposta nelle argomentazioni da me esposte, ricorda solo quelli del suo giro e ignora quelli che ignorava anche quando era giovane. Penso che abbiate capito che sono orgoglioso di essere stato contadino e figlio di contadini.

Il primo amore

Era bella da mozzare il fiato,
o forse ero io che la vedevo così,
ma purtroppo il bel sogno è terminato,
è arrivato un altro e con lui fuggì.

Quanti sonni ho perso,
cosa aveva lui che io non avevo,
non volevo capire che lui era diverso,
aveva la sfacciataggine che io non possedevo.

Con bei vestiti e la moto si è presentato,
io ero figlio di contadini con poche possibilità:
"Ecco il mio principe azzurro", avrà pensato...
Si, io ero povero, ma con tanta dignità.

Un  matrimonio suntuoso, non ha badato a spese,
faceva parte della messa in scena,
tanto che s’è stupito tutto il paese,
ma i creditori non hanno riscosso neanche dopo una novena.

Brusco risveglio dopo il viaggio di nozze,
tutto quanto luccicava non era oro,
e la sposina piangendo sussurrava frasi mozze,
nel stesso tempo le liti si frapposero tra di loro.

Da quello che ho saputo un inferno è stata la sua vita,
la malcapitata tutto questo non lo meritava,
in poco tempo la sua bellezza è sfiorita,
il mio orgoglio tradito, soddisfazione non provava.

Al contrario, il destino per me ha provveduto,
mi ha fatto incontrare una consorte,
che è un angelo dal ciel piovuto,
e tutti i giorni sentitamente ringrazio la sorte,

Quando l'uomo è provato, non si deve disperare,
men che meno godere del male altrui,
il momento avverso può cambiare,
e trasformare in belli, i momenti bui.

Da questa storia per metà triste e metà riuscita,
si deve trarre un insegnamento:
quando si è giovani, si deve stare attenti ad affrontar la vita
perché una volta sbagliato, l’esistenza sarà un tormento.

Trecenta. 03-03-03   

Pregiudizi

Il proverbio dice: “Contadino
scarpe grosse ma cervello fino”.          
Se è così, non si riesce capire
la storiella che sto per dire.
Sono stato in più di un caso testimonio,
al fallimento, o quasi, di un matrimonio.
I due protagonisti, di estrazione sociale diversa,
la stima reciproca hanno diminuita, finché si è persa.
Voi penserete che è stata la gelosia ad entrare in gioco,
no; è stata la differenza sociale a comparire poco a poco.
Caso strano è colpa dell’ignoranza e non del destino,
ad avere la peggio: è quello di professione contadino.
Dall’alto del suo scranno professionale, l’artigiano
apostrofava: “cosa vuoi sapere tu che avevi sempre la zappa in mano”.
Badate bene: aveva  solo la terza elementare,
per i primi tempi, l’offeso lo lasciava fere.
Uno può essere paziente finché si vuole,
Però il giudizio diventa insopportabile al cospetto della prole.
Dillo oggi, dillo domani e in ogni occasione,
non solo in privato, ma anche di fronte ad altre persone.
Anche i figli, plagiati dai discorsi del “sapiente” genitore,
si convinsero che l’altro era un essere inferiore.
Non penserete che l’offeso fosse meno intelligente,
no, era l’altro borioso e strafottente.
Anche per chi crede nella sacralità del vincolo coniugale.
esasperato cede, e finisce per rompere il rapporto matrimoniale.
La stessa situazione si può verificare,
quando i figli, il contadino fa studiare.
L’istruzione li catapulta in un altro ambiente.
e quello che sto per dire si verifica sovente.
E succede che i figli si vergognano un pochino
dalla mamma e del babbo contadino.
Spesso loro sono solo istruiti, e non capiscono per niente,
che anche se con poca coltura, il genitore può essere nato intelligente.
Non so se le mie argomentazioni convincano molti,
però si dovrebbero apprezzare di più i saggi, anche se non colti.
Andando di questo passo lo capirà anche un bambino,
quanto era più sano e bello il mondo contadino.

Preghiera

Sei venuto tra noi.
Ci hai amato.
Ci hai ammaestrato.
Hai voluto
rimanere tra noi.
Ora dal cielo
caro Don Vittorio,
benedici i tuoi
parrocchiani,
che ti ricordano.
Amen

Preghiera

D- Don Vittorio
O- Operatore giusto
N- Nostro riferimento

V- Venuto fra noi
I- I tuoi insegnamenti preziosi
T- Tu ci hai dato
T- Trent’anni sono un vita
O- Offerti hai trecentani
R- Rimasto nei nostri cuori
I- In Paradiso sei certamente
O- Ora benedici noi tutti.
Amen.

 

Ricordo

Caro Don Vittorio,
ad un anno della tua morte
noi tuoi fratelli nella fede ti ricordiamo.
Tu lo sai, oggi gli uomini corrono sempre
più veloci e tendono a dimenticare.
Sappi che noi che ti abbiamo conosciuto
bene, eri e rimani un amico.
Anche se il tuo carattere secco e conciso
qualche volta ci spiazzava, noi vedevamo
in te un’anima buona e amica.
Sempre disposto ad aiutarci e ammaestrarci.
Ora che sei nel regno dei Santi
ricordati di noi peccatori.
Da parte nostra, sappi che pregheremo per te.
Amen.

Posti riservati

Se a  Trecenta volete andare in gita, state attenti,
troverete due signore molto esigenti.
I primi posti hanno prenotato,
con le buone o con il ricatto.
Farle ragionare non c’è verso,
hanno allo studio un pullman che marci per traverso.
Sostenendo che in tal caso, e qui uno s'incanta,
i posti davanti diventerebbero quaranta.
Pensaci bene tu che hai il mal d'auto prima di salire,
l'apposito sacchetto ti potrà servire.
Sarebbe ora che gli organizzatori si dessero una mossa,
altrimenti gli altri gitanti,
vengono calcolati tutti ignoranti.
Chi ha messo in rima queste parole,
non teme il mal d'auto se Dio vuole.
Ma per quelli che  devono accomodarsi agli ultimi posti fa  il tifo
e francamente le signore in questione gli fanno

La politica

La politica è la scienza e l'arte di governare lo stato,
questo, fin da bambino mi hanno insegnato.
Spesso però può diventare una chimera che per la scarana,
induce certe donne ad alzare la sottana.
Se poi in palio c'è il divano,
qualche uomo dà via anche il deretano.
Si è visto certi politici che per i loro errori sembravano spacciati
dopo qualche mese, sotto un'altra bandiera li vedi riciclati.
Un mio avo mi diceva: "La politica  fata de certi è una cosa sporca".
Io dico: "Questa gente meriterebbe la forca".
Quando vedo il marasma nel nostro Parlamento,
mi viene voglia di mandarli tutti in convento.
Non uno normale, ma di clausura,
e che il guardiano perdesse la chiave della serratura.
Sperare in una generazione politica leale e seria!             
Che bella cosa sarebbe porca miseria.
Solo che questa è vera utopia,
perché? Così è, e così sia.

Perin Don Pietro

Nato a San Martino di Venezze il 22 aprile 1926, fu ordinato sacerdote a Rovigo, nella chiesa del Seminario, dal Vescovo Guido Maria Mazzocco, l’8 luglio 1951. Venne subito nominato vicario cooperatore a Trecenta, fino il  1954. Dopo essere stato cappellano ad Ariano Polesine, Bergantino, Fratta Pol. e Presciane , nel 1967 fu promosso parroco di Canda.
Era piccolo di statura ma grande nell’entusiasmo, instancabile nell’educare sopratutto bambini e ragazzi. Forse presagendo la sua morte, avvenuta in giovane età, non stava mai  fermo . L’episodio che mi viene prepotentemente alla  mente, e lo vide protagonista è questo. Eravamo nel 1952, un anno dopo l’alluvione del 51, lui ci ha condotti in gita premio, per avere partecipato assiduamente ai fioretti del mese di Maggio. La meta: il Lago di Garda, durante una sosta a Desenzano siamo stati avvicinati da alcuni abitanti del luogo, incuriositi dal nostro modo di parlare. Quando hanno saputo che eravamo di Rovigo ci hanno presi a male parole e insultati, la causa, il comportamento poco civile di certi nostri conterranei transitati e ospitati da loro, nel dopo alluvione. Gli aggettivi da loro adoperati per descriverli erano: villani, sfaccendati, pretenziosi. Don Pietro ci difese come un piccolo leone, asserendo che noi non centravamo e ha fatto capire che è da vili prendersela con dei bambini. Questo era il nostro piccolo-grande amico. Morì all’Ospedale di Legnago (Verona) il 5 ottobre 1983 a 57 anni d’età. Ora riposa nella tomba dei sacerdoti a San Martino di Venezze.

pubblicato su LA  VOCE  DI  S. GIORGIO, settimanale  parrocchiale  di TRECENTA

Per chi suona la campana

Oggi 12 novembre 2003,
diciotto eroi hanno dato la loro vita.
Uccisi da un odio feroce e insensato.
Mamme, papà,mogli e figli li piangono.
Molti, ma non tutti pregano.
I politici parlano.
L’opinione pubblica scossa, riflette.
I cittadini portano fiori.
Di questi misfatti di chi è la colpa?
Le nostre colpe, quali sono?
Quando mettiamo il nostro zampino?
Ogni volta che come cittadini del mondo,
prendiamo posizione,questi sono buoni, questi cattivi.
Ogni volta che nel colore della pelle,                                                                               
vediamo un nemico e non un fratello.
Quando le nazioni si schierano le une contro le altre.
Quando il più forte vuole imporsi.
Quando le religioni dividono invece di unire.
Quando non comprendiamo che Dio
ci ha creato tutti suoi figli.
Quando non aiutiamo i poveri e i deboli,
come ci ha insegnato Gesù.
E’ tutto questo che ci rende complici.
Se continuiamo di questo passo, non domandiamoci:
“Per chi suona la campana”.
Perché prima o dopo suonerà anche per noi.

Parla come te magni

Par esar capii senza difficoltà,
lè  pruente parlar come i sa insegà.
Con sta mania de parlare l’italian,
spesso che figure! Se fa ridare anche i can.
Da più parti se sente dire ne se parla più in dialetto,
e par le nove generazion l’è un difetto.
Se core al ris-cio cari i me signori,
da ne capirse tra fioi e genitori.
La mamma restà in paese in tla so casa dirocà ma pulita,
la se trova a disagio e se ghe complica la vita.
Quando al fiolo dalla zità al vien farghe visita al ghe parla in modo stran,
lu al dise cal parla l’italian.
La pora dona la fa na confusion,
quando al fiolo al ghe domanda par lavars, il zappon.
La corre in tla casona de drio dla cà,
e la ghe porta la zappa più grande che la gà.
Una putela di bell’aspetto,
ma la sea dismentega come se parla in dialetto.
Tornà in paese dalla zitta,
al negoziante de scarpe la ga domandà:
“Mi dia un paio di chiavate”.
Al vecetto ricordando le primavere andate.
Pronto al ghe risponde: una a mala pena capirai,
par do al cuore al me procuraria seri guai.
Avendo un bisogno, la nuora in zittà abituà,
domanda al suocero il water dove latria trovà.
Sta parola al poro omu al nlea mai sentù in vita sua,
visto che non al gavea capio, per farsi capire: “Dove si va quando la pancia ha la bua”.
Qua in campagna ghen solo un cesso all’aperto e un cadin,
risponde gentilmente al poro contadin.
Alora sbotta la nuora: “Se non cè il water, caghi no”.
Riceve come risposta: “Allora s-ciopa sì”.
Somia stà ciaro,par farse capire in modi perfeto,
sa ne se sa l’italian le mejo parlare in dialetto.