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Palazon: due allegri episodi

Nel primo episodio, un signore con difficoltà di pronuncia che abitava in località Dossi passando per Scanabecco, altra località della tenuta Spaletti, si accorse che sparse sul terreno, dopo la raccolta del  tabacco, c’erano ancora alcune belle foglie cadute, gialle e lucide come l’oro. Come un ladro furtivamente ha cominciato a raccoglierle. Il “castaldo”, il responsabile della zona, vedendolo lo interrogò: “Come mai con tutto il tabacco che hai nella tua zona vieni a prenderlo qui?”

Tutto rosso in viso per l’emozione, rispose: “Sapa olte sia cetonia” ovvero voleva dire “Chi lo sa non sia per caso del Macedonia”. Infatti l’azienda produceva due varietà di tabacco, il “Maoco”, di qualità scadente e dal sapore acre e pesante e il “Macedonia”, di ottima qualità.

Il secondo episodio è più “saporito”. Una delle operazione più delicate per la conservazione delle foglie era la loro cernita, fatta prevalentemente da donne.

Fra i pochi omeni ca ghiera par i laori più pesanti, a ghiera al solito sciupafemmine, “mi fago cusi, mi te faria colà”. Un bel dì, strache da sentir ste esaltazion, le cape reparto, donne nerborute, le ciapa la dicision de farghe la  pulistazion. Le lo ciapa de peso e lo buta sul taolon e  in tun battar d’ocio le gha calà le braghe al malcapita, mentre alcune le lo tegnea fermo, cle altre le sa messo a zugare con al “sacarin”che par al spavento al iera diventa invisibile. Tutte in coro le sa messo osare “E questo al siria al lancia fiamme, al spudafogo.”    

E zò ridare a scuarcia  gola. Solo al mascio, non solo al na ridest,ma a ghe scapa du leagremun

dala vergogna. Par tutto al tempo cle restà li con cle donne non solo al ne sa più vantà ma al ghe sempre sta alla larga.

Quando il Palazon fu usato per magazzino di prodotti agricoli

Dal 1958 al 1962 il salone fu adoperato come cantiere edilizio per costruire pannelli di cemento armato destinati a recintare i semenzai per piante di tabacco.

Immaginate quali danni per i pavimenti: si doveva riempire di malta gli stampi in legno e le lastre di cemento una volta essiccate venivano appoggiate ai muri senza riguardo e i loro bordi taglienti rovinavano l’intonaco dei muri.

I questo periodo le stanze del lato est vennero adibite a magazzino per le polpe secche di barbabietola, che a loro volta venivano adoperate come mangime per il bestiame. Le polpe sono polverose e di odore sgradevole e, non solo gli operai, ma anche gli ambienti ne subivano forte danno.

Negli anni settanta, quando fattore era Alessandro Rinio, i piani nobili e la soffitta del palazzo erano utilizzati per la seconda fase dell’essiccazione delle foglie del tabacco di una varietà recentemente introdotta. Questa varietà, oltre ad essere più produttiva, richiedeva due diverse forme di essiccazione: la prima all’aperto sotto apposite “barchesse” e la seconda in un ambiente chiuso e nello stesso tempo arieggiato.

Per rendere  adattare le stanze adeguate a questo compito se ne dovettero bucare i muri per fissare i pali che a loro volta dovevano servire da ancoraggio per fili di ferro, che formavano un reticolo ad altezza di uomo al soffitto, aggiungendo “traineli” per tendere i fili, purtroppo con grave danno ai muri e all’intonaco.

Le foglie di tabacco, una volta selezionate e legate a mazzetti, erano accavallate su pertiche di legno di faggio ed issate, da filo a filo, fino a tre metri da terra, con grande fatica da parte degli operai, in prevalenza donne (e guai lamentarsi). Appese così le foglie vi rimanevano fino all’essiccazione ottimale.

Il rischio di un incendio era elevato ed il disastro sarebbe stato completo…tutti gli abitanti di Trecenta avrebbero “fumato”.

Il Palazzo Pepoli “Al Palazon” di Trecenta

Il Palazzo Pepoli “Al Palazzon” di Trecenta, è un gioiello dell’architettura Emiliana – Ferrarese, risalente al XVI secolo. Va tenuto conto che per la costruzione gli architetti si ispirarono all’opera significativa allora in auge, presente nell’area emiliana-bolognese, e alla quale il “Palazzon” di Trecenta è sicuramente debitore.

I nomi che si fanno per la realizzazione dell’opera, con maggiore probabilità sono quelli di

Giovan Battista Aleotti, detto l’Argenta e di Giuseppe Antonio Torri, operanti in quel periodo nella zona e per gli stucchi invece il nome più probabile è quello dello scultore Gianfranco Bezzi, anche lui presente in zona in quel periodo. 

I primi elementi della costruzione sono dovuti alla famiglia Bentivoglio, ramo ferrarese dei signori di Bologna, poi cacciati da Papa Giulio II nel 1506. A seguito di matrimoni tra le famiglie Bentivoglio e Pepoli, le proprietà in Trecenta passarono in dote a questa ultima. Nel 1687, Ercole Pepoli decise di ampliare le precedenti strutture,  commissionando il restauro e l’ampliamento del “Palazzon” all’architetto bolognese Giuseppe Antonio Torri.

Il Palazzo Pepoli, all’interno si apre con un grande salone con soffitto a volta, decorato con cigni e angeli, ed un ballatoio in legno che si raggiunge con una scala a chiocciola di pietra. Un’arcata unisce l’edificio alla dipendenza, un rustico del 1779 che porta lo stemma della famiglia veneziana Grimani. Villa Pepoli s’innalza solida e imponente ai margini del centro abitato, quasi a significare il distacco altero del signore feudale e il suo potere sul popolo minuto. Il salone centrale non ha nulla in comune con le raffinate ma fredde ed austere sale d’attesa delle ville padronali palladiane: esso porta alla mente i toni caldi delle musiche rinascimentali, delle commedie, dei pranzi sontuosi e delle feste estive. Tutto nel palazzo ruota attorno al “Salone-Teatro”; non c’è un’entrata indipendente: chi entra si affaccia subito nel salone.

Durante il XIX si ha la decadenza e l’estinzione della famigli Pepoli. Cessata la funzione di rappresentanza, il Palazzon viene ridotto a magazzino e usato per l’essiccazione del tabacco prodotto nell’azienda agricola che passò, insieme con l’edificio, nella prima meta dell’ottocento, ai Conti Spaletti.

Villa Pepoli “El Palazon” conservò i suoi arredi, mobili, quadri, pare anche argenteria, porte di magnifica fattura, fino a circa il 1944. La fine di questo patrimonio è da imputarsi, alla guerra e agli eccessivi costi occorrenti per la conservazione. In quel periodo era fattore Guido Pederzini.

Tra il 1944 ed al marzo – aprile 1945, i Tedeschi utilizzarono la Villa come sede del comando di zona. Quando gli eventi precipitarono, loro buoni esperti di cose di valore, ne approfittarono, e fecero man bassa di tutto quello che era trasportabile. Finita la guerra, per qualche tempo in quello che era rimasto del bel salone si tennero feste di ballo popolari. Dopo tanto soffrire la gente sfogava tutta la sua voglia di allegria.

La famiglia Spaletti nel 1988 lo cedette, con una donazione, il Palazzo alla Regione Veneto che intervenne tempestivamente con il restauro, utilizzando principalmente fondi comunitari.

Appena in tempo per sottrarre l’edificio a un rapido declino provocato dal crollo di parte del tetto e dall’abbandono. Per questo intervento oggi si può ammirare il “Palazzon”, in tutto il suo splendore, risanato e aperto al pubblico.

Per aver maggior informazioni storiche si veda il “Pepoli e Bentivoglio nella terra di Trecenta” di Caberletti Michelangelo