Questi eventi mi furono raccontati da due amici più anziani di me. Il primo è ora un valente musicista, suona e compone per il clarinetto, il saxofono e, soprattutto, il flauto. Lo ricordo con riconoscenza perché è stato il mio maestro di musica. Dopo l’8 settembre, egli fu catturato dalle S.S. a Sacile e portato a Triste al famigerato lager delle Risiere di San Saba. Processato con l’imputazione di disertore e sobillatore fu condannato a morte. Egli mi raccontò che in attesa dell’esecuzione, un giorno di Pasqua, con la desolazione nel cuore, si mise a suonare il flauto eseguendo l’Ave Maria di Schubert. Un maresciallo tedesco lo sentì e lo invitò alla sua mensa, dove poté mangiare in abbondanza (è tuttora una buona forchetta) e poi gli fu ordinato di suonare per gli ufficiali per quattro ore. Per il mio amico la salvezza venne letteralmente dal cielo grazie ad un bombardamento aereo degli Alleati sulle Risiere e chi ha potuto fuggire è riuscito a salvarsi.
L’altro testimone, dopo l’8 settembre fu catturato nei pressi di Carlovaz in Jugoslavia, fu deportato in Germania e costretto a lavorare in una fabbrica e deposito di armi. Il lavoro era massacrante e c’era poco da mangiare a tal punto che quando riuscivano a procurarsi delle patate o delle cipolle non le stavano certo a pelare per poter mettere qualcosa in più nello stomaco. Egli rimase in quel posto per un anno poi fu trasferito a Brema in una raffineria di petrolio con un nuovo stato giuridico: non più prigioniero ma “I.M.I.” ovvero Italiani Militari Internati. La sigla era stampata sulla schiena della divisa. Lì, la vita era ancora dura e la disciplina era sempre ferrea: ad esempio per lavarsi, in inverno, erano costretti ad usare seminudi l’acqua gelida di grandi vasche di marmo all’aperto e guai a ribellarsi.
Durante la settimana lavoravano nella raffineria, mentre il sabato pomeriggio erano liberi e quasi tutti lo occupavano lavorando presso le famiglie dei dintorni (tagliare la legna, falciare l’erba, vangare, ecc.). Quelle famiglie erano composte per lo più da donne e da bambini in quanto gli uomini erano al fronte a combattere. Gli italiani erano pagati con un po’ di pane, latte, patate in quanto anche per quella gente la vita in quel periodo di guerra era dura.
I prigionieri di altre nazionalità (francesi, belgi, olandesi) disprezzavano gli italiani che fino a poco prima erano alleati dei Tedeschi, li accusavano di collaborazionismo e, non di rado, rifiutavano loro perfino gli avanzi dei loro pasti (al contrario degli italiani, gli altri prigionieri avevano più cibo perché erano riconosciuti ufficialmente dalla Croce Rossa e ricevevano i pacchi con generi di prima necessità). Gli uomini a volte non perdonano neanche nella comune sventura.
Il mio amico mi raccontò che una sera, vinto dalla fame, decise di andare a rubare in un vicino campo di patate. Scoperto da un soldati tedesco mentre scavalcava il recinto con il secco in spalla pensò di essere spacciato, di fare la fine di quei compagni spariti nel nulla. Ma con sua sorpresa, il militare si girò dall’altra parte e fece finta di non vedere. Qualche volta il buon senso vince.
Nel Giugno del 1945 fu liberato dagli Inglesi con i pochi compagni sopravvissuti agli stenti. Il viaggio di ritorno durò 15 giorni perché i treni viaggiavano su linee semidistrutte. Gli fu consigliato di riprendere gradualmente il vecchio regime alimentare per permettere al corpo di abituarsi: ci fu qualcuno che non seguì questo consiglio e morì a causa del gran mangiare e del blocco intestinale. Ci vollero molti anni per dimenticare e guarire dagli incubi e ancora oggi, dopo tanto tempo, sogna le sofferenze di quei momenti.