Anche se la mia famiglia ha fatto molto per proteggermi, i miei primi anni di vita sono stati segnati da uno dei flagelli da sempre incomprensibile: la guerra. Avevo solo due anni quando l’Italia entrò in guerra. L’aria che si respirava in casa era triste, mio padre era stato esonerato per la sua età, ma prima il mio fratello maggiore nel 1941 e poi il secondo nel 1943 furono chiamati alle armi. Io non ero pienamente cosciente di quello che stava succedendo, ma quando vedevo la mamma leggere le lettere con certi lacrimoni mi prendeva la tristezza e le chiedevo cosa stava succedendo. Lei, accarezzandomi i capelli, mi diceva “Niente, niente. Continua a giocare.” L’ascoltavo ma non mi convinceva. Solo più tardi ho capito l’odissea di quegli anni.
Sono sempre stato del parere che il passato vada comunque ricordato e fissato sulla carta a vantaggio di chi scrive e di chi legge, sia che a scrivere sia uno studioso oppure uno come me, che coltiva il desiderio che certi situazioni non vadano dimenticate per sempre. Sono certo che i ricordi dell’infanzia sono meno esatti ma probabilmente più veritieri nella loro innocenza. La storia si legge sui libri, io invece mi soffermo sui fatti quotidiani che ho vissuto giorno per giorno.
Nacqui nella primavera del 1938, un anno prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, iniziata ufficialmente con l’invasione della Polonia da parte dei Tedeschi e poi terminata con la disfatta dei paesi dell’Asse: Germania, Italia e Giappone. L’Asse nasce il 27 Settembre 1940, ma l’Italia ne esce l’8 Settembre 1943 chiedendo ed ottenendo l’Armistizio e poi passando a fianco degli Stati Uniti, dell’Inghilterra e della Francia. Ciò scatenò la reazione della Germania che mise in atto una massiccia caccia ai soldati italiani fedeli alla Monarchia e a Badoglio. Chi veniva catturato e non accettava di passare sotto il comando Tedesco veniva condotto nei lager tedeschi da dove pochi tornarono vivi.