Aspettando l’alba – 08

Morte  in  piazza

La guerra disastrosa era finita da pochi mesi e come altri paesi, che avevano preso parte al conflitto, anche l’Italia si trovava in una situazione molto grave. Le distruzioni causate dal conflitto erano evidenti e ci si doveva rimboccare le maniche. Sarebbe stata necessaria la collaborazione di tutti ed invece le continue dispute tra fascisti e antifascisti, monarchici e repubblicani stavano rallentando la soluzione dei problemi. In tutta Italia vi era la necessità di ricostruire un tessuto frantumato, sia dal punto di vista  materiale che da quello morale. Il due giugno 1946 fu indetto il referendum istituzionale in cui dodici milioni di cittadini votarono per la Repubblica e dieci contro. Il 1° gennaio 1948 entrò in vigore la nuova costituzione repubblicana.

Nello stesso anno furono indette le elezioni nazionali che premiò il partito di De Gasperi, la Democrazia Cristiana. Il Partito Comunista e il Partito Socialista, che avevano collaborato sino allora nel redigere la carta costituzionale, nel 1947, si separarono e passarono all’opposizione. Fu un periodo difficile e confuso, scioperi e agitazioni, scoppiarono in tutta Italia.

Anche il Polesine visse gli stessi problemi. Nella primavera del 1948 fu indetto uno sciopero, come tanti in quel periodo, ma questo fu più virulento degli altri e durò venticinque giorni.

Terre  preparate per la semina che si coprivano di erba per l’impossibilità di seminare, i muggiti del bestiame non accudito e non alimentato si sentivano a chilometri di distanza. Le scorte di fieno secco erano esaurite e nei campi l’erba medica era lasciata a marcire. Nell’aria la tensione era palpabile, da una parte gli scioperanti, dall’altra la forza pubblica, la Celere, i carabinieri. Una situazione esplosiva.

Il peggio si verificò un pomeriggio di maggio. L’azienda più grande interessata dagli scioperi a Trecenta, era la tenuta Spaletti. Il bestiame era allo stremo delle forze. Dopo venticinque giorni di digiuno i responsabili dell’azienda decisero di chiedere la protezione ai militari. Mentre questi si apprestavano a distribuire il fieno, gli scioperanti che presiedevano la zona si opposero e chiamarono in appoggio i “compagni” dei paesi vicini. La folla era sempre più tumultuosa e ne uscirono tafferugli e manganellate.

Sia i poliziotti che i scioperanti erano in prevalenza figli di povera gente.  Si racconta che durante lo sciopero uno degli organizzatori delle agitazioni riconosce in un celerino un suo vecchio compagno di scuola. Gli si avvicina per chiedendogli:

“Ma se prima di partire da Trecenta eri un bracciante come noi, perché ora ci prendi a manganellate?”

“Tu fai sciopero per migliorare la tua situazione e quella della tua famiglia; io per non sputare nel piatto dove mangio” fu la risposta secca.

Ancora una volta il bisogno, la miseria aveva messo fratelli contro fratelli, poveri contro poveri. Una tragedia che si ripete da sempre e cui non vi si trova mai il rimedio.

Mentre la sera si avvicinava e il buio che stava per calare, si sparge una voce  “Hanno fatto prigioniera la Celere. Vittoria! Vittoria!”.

La polizia ricevette l’ordine di ritirarsi dal teatro degli scontri presso la località “Dossi”  e di raggiungere il paese per evitare imboscate. Una folla disordinata di migliaia di persone si era messa in moto.

Giunti al centro del paese, alla Celere e ai carabinieri se ne aggiunsero altri giunti dal capoluogo come rinforzo.  Fu a questo punto che il comandante da l’ordine di sparare in aria. Presa dal panico la folla si mise a scappare caoticamente da tutte le parti, con urla, bestemmie, imprecazioni. Un ragazzo di vent’anni rimase a terra colpito mortalmente e trasportato all’ospedale vi giunse morto.

Il parroco del paese, Mons. Graziano Lucchiari ricevette dall’Ospedale la telefonata che era stato ricoverato una persona moribonda, ferita nel tumulto di piazza. Nonostante il pericolo, il prete non esitò ad affrontare la folla inferocita e con passo sicuro e incurante del rischio, attraversò la piazza. L’ospedale era dall’atra parte del paese. Il suo comportamento influenzò favorevolmente la folla, tanto che la collera si tramutò in applauso.

Anche papà Cesare trovatosi in piazza per caso, assistette ai disordini. Tornato a casa tutto trafelato si lasciò cadere sul divano. Adele vedendolo in quello stato, spaventata, chiese:

“Cosa ti è successo Cesare?”

“Un disastro, un disastro, hanno ucciso il mio amico Evelino”. Mentre si asciugava le lacrime dagli occhi.

Tutta la famigli ammutolì, il morto era un loro conoscente.

Per un piccolo paese dove tutti si conoscono fu trauma difficile da dimenticare. Il giorno dei funerali si contavano più agenti di pulizia che cittadini, si temevano altri tumulti. Per fortuna tutto andò per il meglio e non successe niente. La ferita era grave e difficile da rimarginare.

E con la tristezza in gola tutti i contendenti di quella tragica serata si chiedevano chi fosse stato a sparare. La verità non fu mai chiarita. Si è detto che il colpo partì dall’arma della pulizia, chi asserisce che il colpo fosse stato sparato da una finestra di un palazzo ai bordi della piazza, altri hanno detto che il bersaglio era un altro. Risultato fu che una giovane vita fu stroncata, una famiglia annientata dal dolore e una comunità divisa e lacerata.

Lo sciopero finì con la vittoria di Pirro. I padroni concessero qualcosa, i contadini sperarono di potere migliorare le loro condizioni ma in concreto non cambiò niente. 

Un “Cambiare, perché niente cambi” come aveva detto il protagonista del “Gattopardo”

Prima per colpa dell’inerzia di chi comandava, poi  l’alluvione del novembre del cinquantuno trasformarono l’emigrazione dei polesani in un vero esodo biblico. Una grossa fetta della popolazione emigrò verso il triangolo industrializzato di Milano, Torino e Ivrea in cerca di lavoro.

Chi per un verso, che per l’altro, anche le famiglie dei nostri due protagonisti furono coinvolte loro malgrado. Se i poveri di queste parti dovettero emigrare, i possidenti terrieri non trovavano più chi andasse a lavorare per una “fascina” o per una “scodella” di farina. Tutti sconfitti, ma è fuori di dubbio però i padroni se la passarono meglio.