La natura, se la guardiamo con occhio attento, è un capolavoro, ne abbiamo la prova nei “gorghi”. Hanno questo nome quei piccoli specchi d’acqua, senza fiumi che li alimentino ma il cui livello si mantiene costante sia d’estate che d’inverno, con modeste variazioni. La loro origine è dubbia, ma la più accreditata è che siano residui di un ramo del fiume Po che molti anni fa scorreva da queste parti (infatti li troviamo tutti allineati) e che siano alimentati della falda sotterranea. Uno di questi bacini già lo conosciamo ed è il “ Gorgo della Gaspara” che è di una bellezza mozzafiato. Le sue acque sono limpide, in esse si trovano giunchi, canna palustre, ninfee che danno rifugio a diverse specie di uccelli stanziali come merli, tordi, passeri, e di passo come oche selvatiche, anatre, folaghe e molti altre specie. Un vero paradiso terrestre. Immersa nel verde troviamo una modesta casetta, anch’essa circondata da salici, pruni selvatici, acacie e altre piante. Sotto una di queste è seduto nel suo seggiolone un bimbetto. Bruno di carnagione e di nome, con capelli neri e ricci, due occhi vivaci, accudito e sorvegliato dalla sorellina Iole di dieci anni,
che sostituiva la mamma occupata nel lavoro e nelle faccende domestiche. In quella casetta vi abitava una famiglia contadina onesta e laboriosa. Oltre al padre Cesare Zanca, nato nel 1899, la mamma Adele Franco, del 1900, il primogenito Giulio nato nel 1921, Ottavia del 1923, Mario del 1926, Iole del 1928 ed infine Bruno nato dieci anni dopo. Lui sarà il coprotagonista della nostra storia.
Tanti sacrifici hanno permesso l’acquisto di questa casetta, abbellita da un piccolo giardino, con annesso un piccolo vigneto. Il loro sostentamento principale arrivava da un appezzamento di terreno gestito “al trentotto” nella tenuta Spaletti.
Il “trentotto” è una forma di contratto che merita una spiegazione. Il proprietario concedeva al contadino un pezzo di terra da lavorare, dal ricavato venivano sottratte le spese e del rimanente, il trentotto per cento veniva dato al contadino, la rimanenza al padrone. Chi faceva i conti era il padrone e visto come si comportavano i padroni, i conti spesso non erano a favore di chi aveva lavorato. Per arrotondare le magre entrate, il padre e i figli più grandi si dedicavano nei ritagli di tempo libero alla pesca nel gorgo lì vicino. Il capo famiglia Cesare era un uomo robusto, poco colto, ma abbastanza scaltro, gran lavoratore. Oltre a lavorare la terra, che lo impegnava da marzo ad ottobre, praticava la pesca, coltivava l’orto. Tempo per distrarsi ne aveva poco se si pensa che la terra assegnatagli si trovava a tre chilometri di distanza, con strade su terra battuta, ghiaiate in minima parte. I mezzi di locomozione disponibili erano la bicicletta per qualcuno, e il cavallo di San Francesco (ovvero le gambe) per gli altri. Il pranzo molto frugale veniva consumato in campagna, sotto un albero, i lavori erano pesanti: falciare l’erba, mietere il grano con la falce, la raccolta delle barbabietole, taglio e macerazione della canapa. Si arrivava a sera stanchi morti.
Cesare nato nel 1899 e faceva parte di quella classe che è ricordata come “i ragazzi del 99”. Quelli chiamati alle armi a 17 anni, poco più che bambini, e furono addestrati in fretta e furia, mandati al fronte dove soffrirono freddo, fame, miseria, tra i compagni massacrati dalle bombe o fucilati dalle mitragliatrici. Era solito ripetere: “ In guerra, a morire sono sempre quelli, i poveri, e per fortuna che il Signore Dio mi ha aiutato a portare a casa la sghirba”. Cesare si era sposato nel gennaio del 1920. Allora ci si posava presto e lui aveva 21 anni. La sua sposina Adele aveva un anno di meno. Uomo schivo, non coltivava molto le relazioni, in paese lo si vedeva rarissime volte. Andava a votare per la sua fede socialista ed il lunedì della “fiera granda”, in ottobre, si recava a comperare il maialino che sarebbe stato macellato l’autunno dell’anno seguente, il cosiddetto “ maiale da anno”.
Per le famiglie contadine: il lardo, lo strutto, e soprattutto i salami, erano motivo di sicurezza. Rendeva la famiglia tranquilla dal punto di vista di una buona alimentazione, e non si pativa la fame. Non tutte le famiglie potevano permettersi questo.
In tutte queste attività era aiutato dalla moglie, la signora Adele, donna piccola di statura, ma tenace come una “ stroppa zala”, così si usava dire a quei tempi.
Di carattere gioviale, al contrario del marito, le piaceva conversare anche se per farlo aveva poco tempo. Era un bel vedere quando alle domeniche accompagnava i figli in parrocchia, tutti in ordine con i loro vestiti della festa. Quelli dei maschi passavano inosservati, ma quelli delle bambine erano gai e colorati. Come tutte le donne cristiane, mamma Adele si adoperò perché non mancasse un’educazione religiosa hai propri figli. Quando c’era la fiera del paese non faceva mancare loro qualche giro di giostra, l’immancabile zucchero filato e poco altro perché i soldi erano pochi.
Oltre ad accudire la casa, aiutava il marito nei campi quando era necessario. Metteva molto impegno nella cura del pollaio, l’allevamento dei polli, ma sopratutto, delle oche e delle anatre, animali che si trovavano a loro agio nell’acqua, lì vicino. Ai figli, nei limiti delle sue possibilità, non faceva mancare niente. Erano ben nutriti. Mentre le eccedenze le vendeva al mercato del lunedì. In primavera pulcini di gallina, di oca e di anatra. In autunno polli, oche, anatre e uova.
Il mercato si svolgeva in Piazza San Giorgio ed era una scena pittoresca: le ceste e le “capponare” era messe in bella vista sul bordo del monumento, dedicato al Santo, il quale dall’alto guardava e chiudeva un occhio e faceva finta di non sentire le scene poco onorevoli e parole poco “sante”, era proprio un mercato. Il ricavato veniva impiegato da mamma Adele per fare la dote alle figlie e per comperare quello che era necessario per la famiglia e alleggerire il conto dal pizzicagnolo. Era usanza andare e fare spesa, il conto veniva trascritto su due libretti, uno per il negoziante e uno per il compratore. Il guaio era che la penna la teneva sempre in mano al droghiere.
Mamma Adele era anche una discreta sarta e diceva: “Che con la guccia e la pezzola, si tira avanti la fameiola”.
Nelle lunghe serate d’inverno, sbrigate le faccende domestiche, si dedicava a lavorare a maglia. Dopo avere filato la canapa, si metteva a confezionare calze, lenzuola e anche maglie (la lana e il cotone erano troppo cari per le famiglie povere). In questi lavori veniva aiutata dalle figlie. La mamma diceva spesso che “In te sta casa a no se magna pan mato”.
Altro rito era il bucato grosso, lavare le lenzuola di tutta la famiglia. Si faceva tre volte l’anno: in primavera, quando il sole incominciava a scaldare, a luglio in piena estate e in autunno per l’estate di San. Martino. Il lavoro veniva svolto da tutta la famiglia: agli uomini il lavoro pesante, sistemare il grande paiolo di rame nella “fornasela”, il piccolo forno, riempito d’acqua. Lì vicino veniva preparato il “mastelo da bugà”, un tino di legno. Le donne vi stendevano la biancheria, sotto quella grande e sopra quella piccola, la coprivano con un “borazzo”, un telo a tessitura fitta, e vi mettevano sopra la cenere. Vi si versava sopra l’acqua bollente e si otteneva la “liscia” (lisciva) . Le donne munite di bastoni, provvedevano ad eliminare le bolle d’aria che si formavano sotto il telo. Una volta riempito il tino si lasciava riposare il tutto per un giorno. Il giorno dopo mamma Adele e le figlie toglievano il telo con tutta la cenere sopra ed ecco che sotto apparivano i panni bianchi e candidi. Con una apposita carriola vanivano portati dagli uomini vicino al gorgo dove le donne provvedevano a sciacquarli. Nel frattempo papà Cesare fissava delle corde bianche ad appositi pali dove sopra venivano stesi i panni. A dominare era il colore bianco.
Il lavoro era duro ma il risultato risultava soddisfacente.
Tutti i figli vennero avviati a imparare un mestiere, solo il nostro amico Bruno, ultimo, dei figli, venne mandato a studiare. Egli si diploma Perito Meccanico alla scuola professionale “Enzo Bari” di Badia Polesine.