Aspettando l’alba – 02

La casa dal paron “La Gaspara”

Nei primi anni del ventesimo secolo i proprietari terrieri a Trecenta si contavano sulle dita di una mano e in pochi si distinguevano per onestà. Fra questi certamente non vi troviamo i parenti della piccola Elena. Il  capo famiglia, Angelo Rossi, classe 1896, era uomo burbero, non permetteva deroghe, ne alla moglie ne hai figli, e tanto meno ai dipendenti. Non accettava consigli da nessuno, sapeva tutto lui. Un padre padrone, bigotto e moralista, persona molto influente in paese, più per i soldi che per la testa.

Ai salariati, meno soldi dava meglio stava, in cambio pretendeva il massimo. Chi  “scantinava”, era licenziato. Aveva una coltura mediocre ma era in compenso un volpone.  Col metodo del “bagna boca” evitò la guerra 1915-18. E’ morto nel 1990 a 94 anni, pace all’anima sua ma con riserva. Pare che anche suo padre fosse un figlio di buona donna, “tale padre, tale figlio” e  questo era il giudizio di chi lo conosceva.

Per tenere sotto controllo la situazione fece recintare la fattoria per tre lati da un alto muro mentre un gorgo chiudeva il quarto lato. Era il gorgo della Gaspara che dava il nome anche alla fattoria. La casa padronale era circondata da un grande parco dove facevano bella mostra varie specie di pini, cespugli di molte varietà di fiori, di rododendri e di lillà, oltre a molti alberi da frutto, di tutti i tipi. C’era sempre grande disponibilità di frutta di stagione, dalle ciliege in primavera, pesche, pere e albicocche d’estate, fino alle mele e nespole in autunno.

Come tutte le fattorie era composta da vari edifici, spiccava su tutti il fienile con la sottostante stalla per il bestiame, magazzini per gli attrezzi e, all’ultimo piano dell’abitazione, i granai dove venivano conservato il frumento e il granoturco (come si chiamava allora) prodotto nelle terre di proprietà, per poi essere venduto a tempo debito.

L’abitazione  era ed è tuttora, un’imponente costruzione rurale a cui una torre dava un aspetto signorile. La torre serviva anche come posto di osservazione: dalle finestre poste su tutti i lati si poteva controllare ogni angolo della proprietà e controllarne ogni movimento.  Per accedervi ci si doveva servire di una scaletta di legno. Da questo posto il nostro volpone aveva la possibilità di tenere sottocontrollo la situazione. Tutto quello che succedeva, tutti i movimenti dei salariati, dei loro familiari e dei confinanti  non potevano sfuggirgli. E chi sgarrava veniva punito severamente.

Pare che questa parte della casa servisse anche per certe scappatelle del padrone con la compiacente di turno. Mentre la moglie, guai se si attardava a parlare o guardare un altro uomo. Neanche la vecia Rosina è mai venuta a sapere, se la padrona fosse a conoscenza delle scappatelle del marito o se per il quieto vivere facesse finta di niente.

Queste cose erano all’ordine del giorno in queste famiglie che si ritenevano tanto per bene. Sottovoce si diceva che “I corni ci sono ma è meglio non vederli”.

Il  primo e secondo piano della costruzione erano adibiti ad abitazione. Il terzo piano, il sottotetto, serviva da deposito per le granaglie, come abbiamo detto, per le noci, le nespole, che maturavano adagiate su ad un letto di paglia, i fagioli, le cipolle e le conserve di ogni genere preparate dalla padrona, la signora Armida.

Le stanze dove viveva la famiglia erano ampie ed ariose. A questo ci pensavano le grandi finestre a rendere gli ambienti più che confortevoli d’estate, ma freddi d’inverno. Questo problema veniva  superato e risolto con l’ausilio di  tre grossi camini, alimentati da grossi ceppi di legna, la quale non mancava essendo il podere molto alberato e le rive del gorgo erano ombreggiate da alberi da frutto ed ornamentali. Un piccolo Eden come abbiamo visto.

Se la persona del padre di Elena era discutibile, molto positiva invece era quella della mamma. Armide Zeri era donna di buon carattere, di tre anni più giovane del marito, di indole buona, di salute cagionevole, sempre ben curata, tutta casa e chiesa (lei sì, buona cristiana), ben voluta dai vicini al contrario del marito, di poche parole, dotata di una discreta  intelligenza, purtroppo, virtù sprecate in questa famiglia. Si occupava della casa e alla cura dei tre figli.

Il primogenito Oreste, nato nel 1930, dal carattere uguale al padre, prepotente e autoritario e forse anche per questo, fece presto una brutta fine. Non ubbidito da un cavallo, si mise a colpirlo con la frusta, per tutta risposta ricevette un calcio in pieno petto e morì dopo due giorni di sofferenze inaudite. Aveva venticinque anni, una vita sprecata, non aveva mai avuto ne voglia di studiare. Si diplomò con fatica, diventando maestro, professione che non volle mai esercitare e lavorare. Usava dire che “ Il lavoro nobilita l’uomo e lo rende simile a un cammello” e neanche la severità del padre servì a smuoverlo. Per la mamma Armide fu un duro colpo e ne soffrì fino alla morte, da quel giorno si vestì sempre di nero. Il padre, dal cuore di sasso, non si risentì più di tanto.

Il secondogenito Fulvio, nato nel 1933, era di carattere debole, gracile come la mamma. La sua personalità un po’ ambigua è indecifrabile. Si laureò in medicina, specializzandosi in ginecologia, ma anche lui non esercitò mai e neanche si sposò, asseriva di avere avuto una delusione d’amore, ma non si è mai capito se il partner fosse stata una donna o un uomo.

A migliorare le cose per fortuna arrivò la nostra eroina Elena, nata dopo qualche anno, coccolata e anche un poco viziata, crescendo  diventava sempre più bella. La bambina era già bella di suo, la chiamavano la principessina, ma a renderla ancora più bella contribuivano i vestiti che portava. Mentre nella maggior parte delle famiglie, i vestiti venivano confezionati dalle nonne o dalle zie rimaste zitelle, quelli della signorina Elena li confezionava una sarta professionista, adoperando stoffe di prima qualità. Il risultato era sotto gli occhi di tutti e spesso le procurava critiche e invidia dalle sue coetanee che a bassa voce sussurravano: “Chi crede di essere quella smorfiosa, se non di peggio”. Visti i risultati deludenti dei primi due figli, per una volta il “volpone” fece una cosa giusta. Trovò opportuno che la figlioletta venisse aiutata fin dai primi anni a imparare le prime nozioni scolastiche, quelle più elementari. Per fare questo si pensò alla signorina Clotilde, ragazza molto preparata, anche se a guardarla non dava questa impressione. Bruttina, portava due occhialetti dalla lenti spesse. Aveva studiato dalle suore e, oltre che a leggere scrivere e fare di conto, insegnava alla bambina religione. Tutto questo fece sì che quando Elena raggiunse l’età di andare alla scuola elementare fosse più preparata delle altre compagne. Questo modo di fare per la maggior parte dei paesani veniva chiamata maliziosamente “ambizione”.