Aspettando l’alba – 13

L’esodo

L’alluvione fu il colpo finale che fece decidere anche i fratelli di Bruno di cercare lavoro a Milano. Per capire meglio l’ampiezza del fenomeno emigrazione basta pensare che dal paese di Trecenta, partirono alcune migliaia di persone.

Da ottomila quali erano gli abitanti di Trecenta si ridussero a poco più di tremila.

Oltre alla difficoltà di adattarsi al nuovo ambiente, passare dal tranquillo paese natio alla caotica città, non era facile ottenere la residenza e trovare un luogo dove alloggiare. Le abitazioni erano scarse e chi le possedeva esigeva affitti esosi. Si  accettavano scantinati, sotterranei e spazi ridotti.

Si partiva con la valigia di cartone, legata con uno spago. Per trasferire quel poco mobilio e altrettanto esigue masserizie, ci si doveva arrangiare, non so poteva mica assumere una ditta di traslochi.

Chi si trasferiva a Torino o Ivrea poteva riceve aiuto da una ditta di trasporti trecentana che possedeva un negozio all’ingrosso di frutta e verdura a Ivrea e che riforniva  un paio di volte la settimana di prodotti agricoli coltivati in Polesine facendo la spola tra Trecenta, Torino, Ivrea. In quei casi metà del carico era formato da prodotti dell’orto e del frutteto  e l’altra metà da masserizie. Spesso sotto i teloni trovavano posto anche intere famiglie che non potevano permettersi i soldi necessari per il viaggio in treno. Nonostante l’opera buona a questi operatori venne appioppato l’appellativo di “trasportatori di carne umana”.

Questa sorte capitò anche a Bruno e alla sua famiglia.

Il primo a partire fu il fratello maggiore Mario, che trovò un lavoro da manovale a Cinisello Balsamo, vicino Milano.

I primi momenti furono duri, lontano da casa, senza conoscenze, lavoro pesante, le cose cambiarono quando lo raggiunse la sorella Ottavia, la quale era una discreta sarta, il mestiere l’aveva imparato sotto la guida  della eccellente professionista di Trecenta, la signora Elena Ghirlanda.

Ottavia oltre essere brava era anche economica con i poveri cristi , il suo moto era : “ Aiuta il prossimo in difficoltà”. Il successo non tardò a sorriderle, la chiamavano: “ La sartina polesana”. Dopo un anno di tirocinio in una piccola fabbrica di confezioni, aperse una piccola sartoria per conto proprio.

In poco tempo i due fratelli, risparmiando su tutto, lasciarono il “buco” deve erano alloggiati, la stanza di un interrato, freddo d’inverno, bollente d’estate, era abitabile solo perché le mani sante dei due ragazzi lo rese tale.

Con l’aiuto di un conoscente trovarono un alloggio più grande e confortevole, tanto che nel 1956, col miglioramento della situazione gli consentì di ricostituire la famiglia con il raggiungimento di papà, mamma e il fratellino Bruno, che un anno prima si era diplomato in elettrotecnica a pieni voti. Vita nuova, il ritrovato calore famigliare aiuto Bruno a programmare il suo avvenire, pur non scordando del passato, ma si è reso conto che non valeva la pena farsi condizionare dalla precedente malasorte, e si convinse che per lui il destino stabilì diversamente, rassegnato capì cha la vita doveva continuare e cambiare pagina.

Aiutato anche dalla voglia di conoscere, dalle opportunità che una grande città offre, alla rinata voglia di vivere a fatto si che al nostro eroe le si è aperto un orizzonte più roseo. I suoi genitori trovarono il lavoro di portinai.

Come abbiamo visto una parte della famiglia si era ricongiunta,  gli altri fratelli si erano invece sistemati nel paese natio, se Dio ha voluto, la sorte ha imboccato la strada giusta.

Se una parte delle popolazioni di questi paesi, con coraggio e sacrifico hanno preso la decisione di emigrare è doveroso da parte di chi è rimasto tributare a loro un caloroso grazie. Solo così chi è rimasto ha potuto sistemarsi e vivere in un modo più decente, le poche risorse disponibili in questi paesi, tra l’Adige a il Po non erano sufficienti per fare vivere decentemente tutti.

Parlando di sacrifici non si possono dimenticare anche certi episodi che fotografano i disaggi e le situazioni tragicomiche che si sono verificate in quel periodo. Un paesano dei nostri amici, ha deciso di partire all’avventura, sapendo di essere di bocca buona, ha provveduto a mettere nella solita valigia di cartone, non solo indumenti, ma di cose da mangiare, una volta arrivato a Milano, alla stazione centrale, più preoccupato della fame, che non della folla che  gli formicolava  attorno,(per lo più disgraziati come lui in cerca di lavoro), pensò di mangiare qualcosa.

Sedutosi sopra una panchina, che sembrava messa li apposta per le sue necessità,

apri la valigia e incomincio la merenda con un panino infarcito di salame,

“casalin”, proseguì con il dolce che lui in dialetto chiamava “brazadela”, preparatogli dalla santa mamma, innaffiando il tutto con sorsi di “clinton” vino poco classico ma molto saporito e una mela come frutta.

Un facchino della stazione che lo ha notato, le si avvicina chiedendoli : Cosa sei venuto a fare a Milano”, “ A zercare lavoro”, rispose, “E te mangi sempre cosi”,

“Si, si e anca de più sa son a taola”, “Ascolta bene, quà  si tira la zengia e uno come te che mangia così tanto e meglio che torni al paesello”, sapete cosa a fatto il nostro amico, ha rifatto il biglietto di ritorno ascoltando il suggerimento e col primo treno utile è tornato a casa, di questi episodi se ne sono verificati molti altri, se non uguali molto verosimili.