Aspettando l’alba – 11

Elena

Il despota, non contento del modo in cui aveva impedito alla figlia di continuare la sua storia d’amore, inviò un suo dipendente a casa di Bruno con una missiva in cui diceva:

“Elena mi ha pregato di dirti che si è sbagliata, la sua era solo un’infatuazione e che non ne vuole più sapere di te. Hai capito!”

Non contento di questo, aveva obbligato sotto minaccia, che anche Elena annunciasse a Bruno che si era sbagliata, scusandosi di averlo illuso. Lui a queste ambasciate non credette nemmeno una parola, anche perché nel foglietto scritto da Elena aveva notato una  macchia, sicuramente dovuta ad una lacrima. Con la morte nel cuore aveva però capito che le cose si erano mettesse male. Era inevitabile che una persona di tale fatta accettasse che la figlia facesse l’amore con un contadino, un plebeo.

Per Elena questa prova era straziante, niente la poteva consolare, nemmeno il pensiero dei momenti felici trascorsi tra le braccia del suo Bruno che dovevano rimanere  solo un ricordo. 

Il peggio arrivò quando ebbe la conferma che suo padre aveva rinnovato alla Superiora, l’ordine tassativo di non far partire corrispondenza che non fosse diretta a lui personalmente.

Essendo venuta a mancare l’amica che si prestava a inserire le lettere nella sua corrispondenza, che poi i genitori di lei passavano a Bruno, i rapporti  con il suo amore vennero a mancare. Oltre al blocco della corrispondenza ordinò che alla figlia fosse proibito di uscire da sola.

Ad accompagnarla nelle rare uscite era suor Celestina che fu talmente bene ammaestrata da farle ripetere ogni volta: “Amica Elena sei destinata ad una vita che ti darà tante soddisfazioni, sei stata fortunata ad avere questi genitori, certe idee giovanili vanno superate. Loro sanno quale è il bene per i loro figli”.

A cui Elena rispondeva:

“Di questo loro bene non so cosa farmene. Stanno piegando la mia volontà e lei, madre, lo sa bene”.

Stanca di sentire questi sermoni, che avevano l’intenzione di farle cambiare idea ottenendo però l’effetto contrario, un giorno Elena chiese all’accompagnatrice:

“Mi scusi suor Celestina, ma lei ha intrapreso la vita monastica e consacrata, per vocazione e di sua spontanea volontà?” 

A questa domanda la suora è diventata tutta rossa in viso e non le diede nessuna risposta. Bastò questo a Elena per capire che aveva toccato un tasto delicato e che anche la sua accompagnatrice aveva vissuto la sua stessa sorte e questo in qualche modo le rendeva meno pesanti le passeggiate, tanto che il suo sentimento di ostilità nei confronti dalla suora si cambiò in amicizia.

Era un pompeggio di primavera, la natura si ridestava ed era un tripudio di colori,  le prime rondini tornate dai paesi caldi dove avevano svernato, si davano un bel d’affare per riordinare il nido dell’anno precedente o costruirne uno nuovo per quelle rondinelle chiamate a diventare mamme per la prima volta.

Quando forse indotta da questa atmosfera suor Celestina invita Elena a sedere su ad una panchina del parco. Alla nostra giovinetta ci è voluto poco a capire che la sua amica aveva qualche cosa da confidarli, infatti incomincio a dire:

“Ero la terzogenita  di sette figli, la mia era una famiglia molto devota, per non dire bigotta, una nonna  arcigna, quello che diceva lei era legge, e così decretò che il mio  fratello maggiore fosse destinato a dirigere l’azienda di famiglia, invece il secondogenito fosse destinato a diventare prete , se pure controvoglia, ma non cera niente da fare, quella doveva essere sua missione, ma Marco così si chiama mio fratello, più studiava e passavano gli anni, più si convinceva che diventare prete senza vocazione era una forzatura. Di questo ne parlò al sant’uomo direttore del seminario e dopo un lungo colloquio lo congedò augurandoli tanta fortuna e dicendogli:

“E meglio un bravo laico che un cattivo Prete”, e lo benedisse.

Fece anche di più lo aiuto a dare gli esami da ragioniere, ora è direttore di una filiale della “Cassa di risparmio di Padova e Rovigo”.

Io ero la terzogenita come ti ho detto e mi ricordo che mentre le mie amiche ricevevano in regalo bambole di pezza, vestite con colori sgargianti, le mie areno sempre vestite da suora. Non so dirti quanti sermoni ho dovuto subirmi, sulla castità, sul timore di Dio, sulle amicizie che dovevo frequentare. Elena intervenne:

“ E sua mamma cosa diceva a tal proposito”.

“Niente, sempre muta, anche perché se parlava veniva zittita”.

“ E suo papà”. “ Vedeva nella sua mamma un dio in terra. a lui bastava che le

procurasse il tabacco per la sua pipa, e un bicchiere di vino”.

“ A dire il vero crescevo bene, come tutte le bambine della mia stessa età mi 

guardavo spesso allo specchio, non l’avessi mai fatto, un giorno mi vide  la nonna”. “ Casa fai mocciosa, pensa a crescere in intelligenza , non in bellezza”.

“Non puoi immaginare quanto male vi rimasi. La mia casa si trovava a poca distanza dal paese, naturalmente il tragitto lo si faceva a piedi. Finita la scuola elementare, dopo avere superato brillantemente l’esame di ammissione;allora si doveva sostenere questo esame per essere ammessi ala scuola media, incominciai a frequentarla, e fu li che conobbi Giulio, un ragazzo  di un anno più di me, incominciammo a fare la strada insieme, galeotto fu il  giorno che mi prese per mano, quello che ho provato non te lo posso descrivere.

Purtroppo come tutte le cose belle anche questa doveva finire.

Un giorno quasi ciechi dalla felicità non ci accorgemmo che mia nonna ci spiava, le parole che mi sono presa sono da non dire. Da quel giorno volle che fossi  accompagnata a scuola da una vecchia megera come lei, sua serva.

Terminato l’anno fui messa in questo collegio, dove ti trovi anche tu ora, 

da studente a novizia il passo fu breve”.

Con la morte nel cuore e Giulio nei suoi pensieri, Elena confesso all’amica suora:

“Che anche lei supinamente e vigliaccamente si sta adeguando rassegnata, al volere di suo padre, il mio non è mai stato carattere forte, ma sapesse quanto soffro”.

Fu a questo punto che si accorse che due lacrime solcavano le gote sciupate e smorte della sua amica suora e lo sguardo guardava lontano.

Sentendola anche lei sulla stessa barca le dava sollievo e pensava quanto si assomigliavano le nostre due storie e capì che, o si galleggia o si annega.

“Visto che anche lei ha subito la mia stessa sorte, ed ha passato le mie stesse angosce, non potrebbe aiutarmi in qualche modo, per esempio parlare con la Madre Superiora”?

“Cara la mia Elena lo farei volentieri”.

“Perché non lo fa”.

“Sai cosa mi ha risposto, quando mi sono confidata con lei su come è nata; anzi come non è mai nata la mia vocazione e che stavano obbligandomi a prendere i voti! Mi ha risposto: “ Cara non credere di essere la prima e non sarai l’ultima, la stessa

cosa è successa anche a me e ne ho sofferto tanto, ma ora ringrazio il buon Dio della serenità che sta donandomi, vedrai sarà così anche per te”.

“Ora capisco il perché, la Superiora esegue tassativamente gli ordini che le da mio padre, Bruno amore mio perdonami, come vedi non posso farci niente”.

Le poche alunne, che frequentano il corso d’Inglese erano tutte nelle sue condizioni tutte allontanate da casa, recluse, anche se lo erano in una gabbia d’oro.

L’insegnante a conoscenza di questo, si prodigava per il meglio.

Elena, passò un’estate d’inferno, il corpo in collegio e la tesa altrove,  sconforto e depressione furono i compagni delle sue giornate.

Dalle lettere che riceveva da casa, solo le parole della mamma le davano conforto.

Visto che il destino aveva voluto così, si decise di applicarsi ancora di più negli studi, dopo che la licenza media la ottenuta con un profitto ottimo e al liceo si diplomò con il massimo dei voti, si iscrisse alla facoltà di lettere, questo procedere frenetico le permise di attutire e fare passare in secondo ordine i guai vissuti da giovane.

Nel 1965 si laureò col punteggio massimo 110 e lode, sostenendo una tesi sulla vita e le opere del Senatore Prof. Dott. Nicola Badaloni, illustre cittadino vissuto a Trecenta nella prima metà del secolo ventesimo.

Tra le abitudini che volle perdere, cera quella di non tornare più  nel suo paese natale,  troppi ricordi le sarebbero riaffiorati alla mente: la Gaspara, il suo laghetto, (il gorgo), i giorni spensierati li trascorsi, ma soprattutto il suo Bruno, primo amore mai dimenticato. A tutto questo va aggiunto il crak finanziario subito da suo padre.

Il “Volpone”, mal consigliato ha fatto investimenti sbagliati, poi a seguito degli scioperi gli operai hanno incominciato a pretendere la paga sindacale, e non come prima che venivano pagati con una “fascina”, un fascio di legna.

L’alluvione causata dalla rotta disastrosa del fiume Po, nel 1951, fece il resto.

Così il “Volpone” ha perso il vizio e anche il pelo.

Ha incominciato a vendere i pezzi di terreno più pregiati, ma i debiti crescevano.

Dal figlio Fulvio ha avuto solo delusioni, tanto che non si è mai capito come abbia finito la sua esistenza, solo dopo anni si è sussurrato che sia stato uno dei primi a morire, della nuova malattia l’A.I.D.S. visto le compagnie che praticava.

Della mamma si ha notizia che è morta nel 1975, a settant’anni, ma ne dimostrava ottanta tanto era malandata. Ha finito i suoi ultimi anni in una misera casa comprata con gli ultimi soldi rimasti. Una parte li aveva riservati per la figlia, affinché terminasse gli studi. Per il “Volpone”, la caduta in miseria è stato il tributo che ha dovuto pagare per le sue malefatte, per Armida è stata la conclusione di una vita tribolata, anche quando era florida. La pensione di coltivatore diretto le serviva a malapena a vivere, tanto che, per il funerale dei genitori ha provveduto Elena, con i suoi primi stipendi da in segnante. Vedendo la poca gente convenuta al funerale della madre, Elena ebbe a dire. “Mia mamma, è stata dimenticata da tutti, ma non per colpa sua, lei era buona,  fin troppo, visto come si è fatta trattare da mio padre”.

Il superuomo è invece vissuto altri diciassette anni, in un ospizio per anziani, sempre a spese della figlia. Sulla lapide hanno scritto: “Qui giace l’anima buona di……”

Qualcuno che lo ha conosciuto invece suggeriva invece: “Qui giace un uomo  perverso pregare per lui è tempo perso”. A detta di chi lo ha seguito negli ultimi anni, non si è mai scusato o questo venia, delle sue malefatte.

A rendere meno dura la vita di Elena, anzi a ripagarla dei torti subiti, la sorte le ha fatto incontrare un bravo giovane, suo compagno di studi, Andrea Sarti.

Dopo un breve fidanzamento si sposarono e dopo un breve apprendistato, il momento era propizio per chi aveva una laurea, ottennero il posto di insegnante, in due diverse scuole di Padova. Nel 1970, il loro sogno fu coronato dalla nascita di un bel bambino, Giovanni, biondo con due occhi azzurri come la mamma.

Vista la professione dei genitori, la strada per Giovanni era segnata, continuare gli studi. Nonostante le avversità la vita continua “e domani è un altro giorno”.