Aspettando l’alba – 01

Di buon mattino

Era una mattina gelida. L’inverno quell’anno si era presentato rigido sin da novembre ed anche straordinariamente lungo, se pensiamo che era la prima domenica di aprile del 1939. Era lecito aspettarsi la primavera ed invece quel giorno il cielo era nuvoloso con un freddo pungente provocato da un forte vento di tramontana. Vedere uscire il calesse dal portone principale con quel pessimo tempo e soprattutto nel giorno di festa, incuriosì i vicini di casa. A bordo del due ruote, trainato dalla Bianchina, la piccola cavallina dal manto bianco, si trovava Camillo lo stalliere. Si potevano vedere solo gli occhi del conducente, tutto imbacuccato nel pastrano militare che era il suo compagno inseparabile da dicembre a marzo. L’indumento era l’unico cimelio che gli era rimasto come ricordo della Grande Guerra.

Nel 1916-17, le autorità militari, per fare fronte alle grosse perdite subite, reclutarono i maschi, poco più che bambini, della classe 1899. Dopo un addestramento fatto in fretta e furia, vennero mandati al fronte a combattere gli austriaci nella battaglia del Piave e poi in quella di Caporetto. Di questi giovani militari pochi si salvarono, e sono tuttora ricordati come i “Ragazzi del 99”. Tra questi c’erano Camillo, lo stalliere, e il suo compaesano Settimio, in guerra erano stati amici per la pelle. Ma tornati a casa, dopo avere superato mille pericoli, li vedevi spesso azzuffarsi come due galli in un pollaio: ogni volta che si incontravano, Settimio rimproverava l’amico per il comportamento servile che teneva verso il padrone.

Camillo gli rispondeva scocciato: “Ca porta sempre le difese dal me paron, a ti al ne ga da intraresare, par la me fameia le na tradizion, prima ma opà e adesso mi, e po in tal piato ca se magna, ne bisogna spudareghe”.

“A sirà anca cusì, ma par mi e per i to compaesan e te si un gran mona”, replicava Settimio.

E tutto si concludeva con un bella bevuta dalla “Cisira”.

Data l’ora, solo poche persone videro quella mattina il fedele servitore uscire e dirigersi verso il vicino paese. Ma quelli che lo videro, curiosi e pettegoli come spesso succede nei piccoli borghi, si posero mille domande. E la risposta sarebbe presto arrivata. Al ritorno al fianco di Camillo, anch’essa imbacuccata, sedeva la signora Gemma la levatrice, “la comare” di condotta.

Ai quei tempi solo pochi bambini nascevano in Ospedale, soprattutto parti che si presentavano difficili. Tutti gli altri bambini nascevano in casa assistiti dalle puerpere. Si trattava di un avvenimento che interessava non solo la famiglia del nascituro ma anche il vicinato.

All’arrivo delle doglie, mentre il marito a piedi o in bicicletta andava a chiamare la levatrice, la suocera, spargeva la voce e, discretamente, quasi con atteggiamento religioso, le vicine più esperte si mettevano all’opera. Spesso, alla comare non restava che compilare il certificato di nascita.

Il portone si aperse solo il tempo necessario per fare entrare il calesse. I presenti incuriositi ed infreddoliti, si misero a commentare:

“La parona la stà par partorire.”

“Ma come? La mea dito cla saria andà ai ultimi de maggio”, se ne esce la vecchia Rosina, che sapeva sempre tutto.

“Se vede ca nascerà un setimin”.

A mezzogiorno tutti sapevano che era nata una bambina, che si sarebbe chiamata Elena come sua nonna, anche se prematura stava bene, pesava tre chilogrammi, era bionda, con gli occhi azzurri colore del cielo ed era un vero spettacolo a vedersi.

La mamma Armida era molto felice e sollevata che tutto fosse andato bene, anche perché aveva quaranta anni, che partorire a quell’età a quei tempi era una eccezione. Aveva già due figli maschi ed erano passati sei anni dalla nascita di Fulvio. Aveva sperato in una femmina e ormai non ci sperava più.

Il padre Angelo, di nome ma non di fatto, magro ed ossuto, sempre maldisposto verso il prossimo, non era certo il compagno ideale per donna Armida. Fu l’unico che non lasciò trapelare nessuna emozione. “Al paron” doveva fare il duro. Ma non era sempre andata così, qualche anno prima si era invaghito di una bella contadinella che lo aveva prima fatto andare fuori di testa e poi ricattato. La riputazione di bigotto ne avrebbe subito un duro colpo se la notizia fosse circolata. Ora la cosa era finita. La signora Armida ne era venuta a conoscenza, ma per amore dei figli aveva scelto di faceva finta di niente (non aveva altra scelta).

Per il giorno del battesimo si sarebbe fatta gran festa, tra i molti invitati spiccavano il podestà e molti notabili del paese. Oltre ovviamente il prete che doveva assolvere il padrone dai peccati in confessionale.

I vicini di casa commentavano “Saìo parchè iè sempre i stessi ca magna?” 

 E la Rosina rispondeva “Parchè tra can i ne se morsega, e i magna come ia sempre fato in tal stesso piato e a noantri a se resta solo le brise”.

Alla Gaspara, i dipendenti erano ricompensati con un magro salario e più spesso da una “fascina”, un fascio di legna per poi essere licenziati con la frase “Andate a lavorare altrove pelandroni”.

Le sapeva queste cose il parroco? Che spesso era invitato ai banchetti. Sapeva come richiamare al dovere cristiano il padrone? Oppure gli conveniva chiudere un occhio?

Alla gente queste cose non piacevano. Nella zona di Trecenta e dell’Alto Polesine, i lavoratori trattati in questo modo erano facilmente attratti dalla propaganda socialista. Le condizioni di miseria al limite della sopravvivenza costrinse all’inizio del secolo un alto il numero di poveri ad emigrare, inizialmente verso le Americhe: Brasile, Argentina, Brasile e Stati Uniti. Nel periodo fascista la destinazioni era l’Africa: Etiopia, Eritrea spinti dalla propaganda fascista. Molti veneti emigrarono anche nell’Agro Pontino, da poco bonificate (ancora oggi a Latina si sente parlare veneto).

La pellagra, malattia causata dalla malnutrizione, provocava la morte di più del 3% della popolazione ed un elevato tasso di demenza. Il medico condotto Nicola Badaloni, venuto a Trecenta alla fine del secolo precedente si era fatto carico della protesta in alto loco contro lo sfruttamento di queste misere popolazioni. La protesta era contro il comportamento miope di certi proprietari terrieri come il padre della piccola Elena.

Ai notabili del posto faceva comodo mantenere il territorio nell’arretratezza opponendosi al passaggio della ferrovia o alla costruzione di industrie come quella saccarifera: “Se la gente avesse trovato posto nell’industria nascente, sarebbero mancate la braccia per lavorare la terra”.

Senza altre fonti di reddito e paganti miseramente, i braccianti furono costretti a protestare. Solitamente si limitavano a scioperare, ma alcuni si spinsero al confronto armato con le forze dell’ordine con rispondevano in modo brutale.

Questa situazione caotica sfiorò solo marginalmente il padrone della “Gaspara” mentre Elena cresceva bene, in età e bellezza. Sembrava una bambola ed era facile prevedere per lei un prospero avvenire. Ma non è stato così.